Massimo Dapporto – Vita d’artista

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Roma, febbraio. Al Sistina Massimo Dapporto, 59 anni in gran forma, cordiale e sincero all’approccio, è protagonista del Malato immaginario. Da mesi lo porta in una tournée per il Belpaese: durerà per tutto il 2006. Dapporto, chi è oggi il Malato immaginario? È un ipocondriaco, che ha la malattia di affrontare sia la vita che la morte. Il male del nostro secolo, poi, novecento compreso. Mi interessa per questo, dato che probabilmente affronterò altri classici, perché vorrei restituire agli spettatori il divertimento della commedia. Una volta si facevano in un certo modo Molière o Goldoni, poi sono venute l’avanguardia e la sperimentazione. Registi che sono più portati ad un teatro intellettuale si cimentano con la commedia, riducendola a qualcosa di noioso, non fruibile dal grosso pubblico. Io invece desidererei riportare in superficie i colori che ha usato l’autore, farlo parlare di nuovo agli spettatori nella sua genuinità, con un’operazione di onestà nei suoi confronti. Il Malato arriva dopo oltre trent’anni di carriera e altri Molière, ma anche tanta tv. Soddisfatto? Ho esordito proprio il giorno del mio matrimonio, il quattro gennaio del ’71. Sono subito partito per Lucca, dove avevo già iniziato le prove di uno spettacolo, ma quello era il mio primo giorno di paga. Certo ora sono contento, ho raccolto parecchio negli anni Novanta, quando ancora non c’era una televisione depistante per quanto riguarda il nostro lavoro di attori. Io la guardo con curiosità, la giudico, la critico la tivù ma non butto molotov su questi programmi. Il mio contributo l’ho dato a pieno ritmo dal ’92 in poi, dopo che dall’84 avevo iniziato anche a far cinema: Soldati di Marco Risi, Mignon è partita dell’Archibugi, Celluloide, Una storia semplice, e così via. Alcuni dei suoi personaggi televisivi l’hanno resa popolare per la forte carica di umanità. Una qualità tipicamente sua. Me ne sono accorto anch’io (sorride, ndr). Credo sia un fatto di natura, ereditato da mio padre (Carlo, at tore dal talento brillante, ndr). Di solito nei personaggi cerco di fare uscire il mio lato migliore che si mette al servizio di personaggi positivi, e questa mi sembra una bella cosa! Certo, tutto ciò mi ha procurato tanto affetto. Infatti, per me il pubblico è un parente, un amico. Mi fermano per strada, spesso ci abbracciamo: come va? come stai?. E a me interessa davvero saper incontrare la gente, conoscere la situazione di una persona, come vive, fermarmi a chiacchierare. Torniamo al teatro, dove dall’88 recita da protagonista. Si parla molto di crisi, di assenza dei giovani… Beh, la crisi del teatro c’è. Di spettatori, intanto, per un fatto di scelte teatrali, perché per il pubblico più delle critiche sui giornali conta il passaparola: se uno spettacolo annoia la gente non ci va. Non è che per forza si debba ridere, ma se un Amleto, poniamo, viene recitato male o con una regia sbagliata, tutti si annoiano. A questo punto, preferisco il Malato, riproporlo in maniera nuova: tant’è vero che io lavoro dall’88 con la compagnia Ardenzi, e mai abbiamo avuto crisi. C’è un altro aspetto. Gli impresari hanno scarso coraggio di lanciare nuovi talenti come scrittori, che ci sono, combattono, soffrono per potersi esprimere… Mettiamoci poi la crisi economica, gli imprevisti – uno sciopero, una nevicata che ferma la gente, come m’è successo a Rimini…: il teatro è una cosa fragile. Riguardo ai giovani, ho notato molti ragazzi che fanno analisi attente, si vede che si sono preparati; qualcuno viene per disturbare o saltare la lezione, ma quando si appassionano sono una bella forza. Ne ho incontrati dalla Sicilia al Veneto, non mi hanno mai deluso. Lei è figlio d’arte, una vocazione nata in casa, si direbbe. Beh, è stato tutto normale, certo inconsciamente all’inizio. M’è servito il fatto di essere nato e cresciuto in un ambiente teatrale. Da bambino mi costruivo con la sabbia una pedana dove declamavo versi che inventavo ai coetanei. A cinque anni ho fatto parte di una compagnia di bambini: raccontavo barzellette in un numero che aveva messo su mio padre. Poi ho studiato fino al primo anno di scienze politiche, ho fatto il militare e infine varie vicende mi hanno portato all’Accademia Silvio d’Amico e… la cosa è andata. Dapporto, ma un attore chi è? È una persona particolare, è uno che può passare tutto il giorno a fantasticare, vede una situazione umana e magari già pensa a una commedia. Io osservo tutto ciò che mi circonda, ho sempre avuto una fantasia galoppante: a volte mi viene in mente una storia per il cinema, ne ho quattro o cinque: non le farò mai, per non intralciare mio figlio che lo fa. Certo, per un attore conta trovare la persona giusta al momento giusto oppure la persona sbagliata al momento giusto, come è successo a me: avevo appuntamento col regista Steno per un provino, si sono confusi sul nome, mi hanno mandato da Scola che mi ha preso per La famiglia. A proposito di famiglia, come è stata e com’è la sua? Io devo molto a mio padre, ho le sue stesse reazioni nella vita di tutti i giorni. A volte mi sembra di essere spinto da lui. Mia madre era distaccata, riusciva a superare momenti di disperazione come se le cose le scivolassero addosso: succede anche a me. È una filosofia, forse per aver capito quanto tutto è futile nella vita. Nei momenti drammatici, di fronte ad esempio alla morte, la vedo con un lato non saprei se di ottimismo o cristiano: sono convinto che c’è una continuità, per cui la morte è un passaggio, non ci disperiamo, siamo stati partoriti dall’altra parte. Con mia moglie, poi, c’è un matrimonio felice da 34 anni. Di quello che ho combinato io, il cinquanta per cento è suo. Se non avessi avuto un tipo di donna come lei non so quale sarebbe stato il mio destino lavorativo e di uomo. L’uomo e l’artista Massimo Dapporto ha ancora dei desideri da realizzare? Vorrei invecchiare con grande equilibrio, mettendo a servizio dei giovani quello che ancora imparerò da questo mestiere. Quando non avrò più la forza per andare in scena o non me ne importerà niente della macchina da presa – cosa un po’ difficile perché è una specie di droga -, mi piacerebbe insegnare, venire chiamato da una scuola di stato dove non c’è guadagno, trasmettere i segreti che si imparano stando in scena e spiegare l’umiltà necessaria in questo mestiere. Noto che gli artisti parlano spesso di umiltà… Ne parlano perché noi non siamo assolutamente umili, e allora non so se si può insegnare alle nuove generazioni, in modo che noi continuiamo ad essere non umili e loro invece lo divengono (ride, ndr). Ma l’arte, per lei, che cos’è? Io mi sono fatto questa convinzione: se Dio abbraccia tutto, noi forse esprimiamo la sua parte artistica, facciamo parte in qualche modo di quel qualcosa che è la parte artistica di Dio.

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