Mascherine e mito dell’individuo

Siamo tutti legati, dipendenti gli uni dagli altri. Il bene di uno si riflette sul bene di molti.
(AP Photo/Eduardo Verdugo)

Durante la fase più acuta della pandemia, ho incontrato una conoscente che camminava tranquilla nel mio quartiere, a mezzogiorno, i marciapiedi alquanto gremiti di persone, senza mascherina. Mi sono fermata per salutarla restando a distanza, con la mia protezione. Senza che io dicessi nulla (ma forse il mio sguardo è stato eloquente), mi ha comunicato che lei la mascherina «non la sopporta» e non intende usarla più, tranne nei luoghi dove sarà obbligatoria.

A fronte di molte persone che hanno compreso l’utilità e il significato di indossarla, in questo periodo in cui il virus circola ancora, sono numerose quelle che si comportano come la mia amica. Abbastanza numerose perché valga la pena interrogarsi sulle loro ragioni e la loro mentalità. Come mai persone che non sembrano egoiste e neppure menefreghiste non comprendono che la mascherina, oltre a tutelare se stessi, protegge gli altri; anzi, difende la propria salute in quanto protegge quella degli altri, magari più fragili di noi?

Ritengo che si tratti di persone abituate a pensare a sé come “individui”, nel senso che ha assunto questa parola nella contemporaneità, ossia come soggetti liberi, autonomi, indipendenti e portatori di diritti. Un soggetto con queste caratteristiche si sente: a) autonomo, ossia libero di decidere per sé, capace di stabilire se rischiare o meno la propria incolumità, e in che misura; b) indipendente, ossia slegato da altri soggetti, che sono a loro volta liberi e autonomi di scegliere il proprio comportamento; c) in diritto di adottare tutti i comportamenti che non siano espressamente vietati dalla legge.

L’individuo si è definito come tale in epoca moderna, quando da suddito è divenuto cittadino, uscendo dallo stato di soggezione e di minorità che l’essere sottomesso al sovrano comportava. Locke, Kant e altri illuministi assegnarono grande valore etico e politico a questa emancipazione: l’idea dell’individuo autonomo e in grado di decidere per sé ha rappresentato la base per le Costituzioni liberali europee. Stiamo parlando quindi di una grande idea, con esiti importanti.
Comprendendo il valore storico di tale evoluzione, non intendo con queste righe stigmatizzare l’individualismo occidentale, ma solo mettere in luce l’esigenza di alcuni ripensamenti di quest’idea, per approdare a una visione più comunitaria della società, senza rinunciare al riconoscimento dei diritti individuali.

A partire dal ’700, infatti, con lo sviluppo del liberalismo e le trasformazioni del capitalismo, il concetto di individuo si è progressivamente irrigidito: l’individuo autonomo, adulto e autosufficiente, è diventato modello dell’umano. Questa costruzione concettuale si è fondata su una serie di rimozioni, alcune delle quali sono facilmente identificabili: l’oblio della dipendenza del bambino dai genitori, nell’infanzia; l’oblio dell’invecchiamento e della mortalità; l’oblio della fragilità del corpo umano e della condizione di malattia; l’oblio del bisogno di cura; l’oblio del destino collettivo che ci accomuna in quanto abitanti del pianeta.

L’emergenza di salute pubblica del Covid-19 ci ha però portati a riflettere sul fatto che siamo tutti legati, dipendenti gli uni dagli altri, e che il bene di uno si riflette sul bene di molti, se non di tutti. All’inizio della pandemia un embrione di consapevolezza di questa realtà era emerso, e abbiamo visto molti, soprattutto giovani, cantare addirittura l’inno nazionale sui balconi. Ma quel senso di unione si è rapidamente dissolto con il prolungarsi del lockdown, e ancor più con il calo del rischio, e credo che anche questo fatto sia imputabile alla nostra concezione dell’individuo. Il filosofo Miguel Benasayag ha scritto che «l’individuo resta un personaggio di un’arroganza monolitica, che agisce come se fosse il centro dell’universo» (Il mito dell’individuo, MC editrice, Milano 2002, p. 26).

(AP Photo/Emilio Morenatti)
(AP Photo/Emilio Morenatti)

Ciascuno vive come un atomo, che può scegliere se mettersi in relazione con altri, oppure no. Ciascuno crede di avere dei legami, che può coltivare o meno. Ma, come affermano diversi pensatori contemporanei, soprattutto donne , in realtà noi siamo fatti di legami, siamo strutturalmente in relazione con gli altri: le nostre relazioni non sono opzionali. In altre parole, abbiamo radici e un bagaglio esistenziale dai quali non potremo mai prescindere. Potremo comprendere le nostre origini, elaborare i contenuti della nostra dotazione familiare e sociale, emanciparci in parte dalla nostra storia, ma essa inesorabilmente ci definisce.

Ciò significa che il legame tra le persone è molto più profondo e radicato di quello che pensano gli individui occidentali, i quali appaiono prigionieri di un’illusione: esistere come protagonisti assoluti della propria storia, sciolti dai legami con gli altri esseri umani, la natura, l’ambiente circostante, il resto del mondo. Ma la loro “storia”, così costruita, concepita come puro prodotto delle loro azioni e delle loro scelte, non è più una storia.

È una sciagura, che rende l’individuo unico responsabile di ogni suo fallimento e sconfitta, e crea un insopportabile sentimento di insicurezza e di inadeguatezza. Il self made man (il mito di colui che si è fatto da solo) è destinato a infrangersi contro la fragilità e la dipendenza umane. La storia di ciascuno di noi, se privata delle radici, diviene opaca e incomprensibile, e produce senso di solitudine, isolamento, frammentazione, in sintesi disagio e malessere.

Per questo insieme di ragioni, credo e spero che stiamo imboccando una nuova strada. Molti intellettuali stanno cominciando a mettere in crisi la nostra idea di individuo, inducendo i nostri contemporanei a ripensare la concezione della persona e della connessione con gli altri, ad accogliere la vulnerabilità come propria della condizione umana oltre che della terra che ci ospita, a far crescere la consapevolezza dell’inter-dipendenza come presupposto per una vita appagata e serena. Il Covid-19 è un’opportunità per rivedere l’irrigidimento e la mitizzazione della concezione dell’individuo della nostra cultura, e per metterlo in discussione. Cominciamo a indossare le mascherine e a pensare non solo alla nostra incolumità. Sarà un inizio di cambiamento.

I più letti della settimana

Chiara D’Urbano nella APP di CN

La forte fede degli atei

Mediterraneo di fraternità

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons