Marco Pantani, l’ultimo pirata

Sono passati dieci anni da quel 14 febbraio 2004 quando in una camera del residence Le Rose di Rimini venne ritrovato il corpo senza vita di uno dei più grandi campioni dello sport italiano. Ancora molte le verità da chiarire. Rimangono le emozioni, le discese ardite e le risalite
Marco Pantani

Se mi chiedessero chi era Pantani non saprei rispondere. Forse è un’emozione in bicicletta. Forse un ragazzo fragile animato dalla voglia di emergere per accarezzare un sogno. O forse ancora una persona diventata personaggio.

«Potrebbe partire Pantani. Eccolo! Di fatti parte», «Qui comincia la parte più difficile, ma intanto ha staccato tutti», «Attenzione, attenzione è il momento decisivo», «Il Pirata, il Pirata! A due anni di distanza dalla sua ultima vittoria, il Tour de France ci ripropone un grande, un grandissimo Pantani».

Soprattutto questo era Marco Pantani da Cesenatico. Lo scalatore venuto dal mare. Oltre le telecronache dell’indimenticabile Adriano De Zan basta chiedere alla generazione anni ’80. Ragazzi  nel pieno dell’adolescenza alla ricerca di un mito, un idolo da imitare. Per sapere chi era Pantani basterebbe rispolverare i ricordi delle vacanze di famiglia al mare. La mattina in spiaggia e i pomeriggi al bar «perché c’è Pantani al Tour».

Marco con le sue imprese ha coinvolto e travolto l’Italia. Davanti alla tv si schieravano tutti. Poveri e ricchi, figli e genitori, amici e nemici, nonni e nipoti. Scattare, sfidare, vincere. Era il comandamento, il dogma del Pantani-mito, alla faccia di quelli che dicono che nello sport semmai c’è spazio solo per le leggende. Il mito Pantani oggi è sacro, non si può violare, né scomunicare. Pantani rivive attraverso la memoria: immagini, striscioni, simboli. Liturgie e cerimonie. Mediatiche per la precisione. Julien Ries ha scritto pagine bellissime sul mito e di certo con lo sport aveva poco a che fare. Ecco, lì dentro c’è un po’ Pantani.

Quella morte, giunta sola, dieci anni fa in una camera anonima non ha fatto altro che consacrare un mito. L’evento così assurdo e ricco di contraddizioni ha scatenato la pubblicazione di libri, la venerazione di monumenti, il pellegrinaggio sulle vette territorio di conquista. Il mito ha attivato la memoria. Pantani era ed è uno e uno solo anche se non più al comando della corsa. «Pantani vive», scrivono i tifosi del Giro.

Marco ha coinvolto, travolto, ma anche sconvolto l’Italia in quel 5 giugno del 1999 a Madonna di Campiglio con l’ematocrito oltre il limite e una maglia rosa ben salda sulle spalle. C’è un Pantani prima di Campiglio e uno dopo. Prima ciclista e poi uomo, immerso nei pensieri, nei sospetti, nel vortice delle aspettative, nella gogna dei giornali e dell’opinione pubblica e giudiziaria.

A dieci anni dalla morte possiamo però inquadrare il campione-personaggio lasciando da parte per qualche istante il misticismo ricordando i rapporti tra Pantani e il famigerato dottor Conconi, già rettore dell’Università di Ferrara, noto medico dello sport che a metà degli anni ’90 “curava” molti campioni con il bene placido di alcune federazioni. La sentenza del processo Conconi per il reato di frode sportiva (n°533/2003 del Tribunale di Ferrara), poi caduta in prescrizione, cita gli atleti coinvolti. Pantani è in quella lista. Conconi avrebbe controllato «lo stato di salute degli atleti nei periodi di assunzione da parte degli stessi di eritropoietina (Epo n.d.r.) […] interagendo in tal modo con il trattamento e comunque agevolando, favorendo e contribuendo casualmente al doping degli atleti». A completare il quadro ci sono variazioni dell’ematocrito giudicate “mostruose” dai periti d’ufficio e registrate in alcuni file del computer sequestrato a Conconi nell’ottobre del ’98.

Nel gennaio del ’94, come riportato anche da un articolo apparso sul quotidiano “La Repubblica” il 27 ottobre 2000, il sangue di Pantani registra un ematocrito al 43,4 per cento con emoglobina a 14,4. Il 13 giugno al termine del Giro d’Italia in cui vince due tappe e arriva secondo in classifica generale l’ematocrito di Pantani è al 58 per cento con l’emoglobina a 18,6. Doveroso dire che all’epoca non c’era un protocollo per individuare l’assunzione di Epo né tantomeno una legge antidoping. Pantani inoltre nel controllo di Campiglio non è stato trovato positivo ad una sostanza dopante e avrebbe potuto tornare a correre dopo 15 giorni di sospensione.

Memoria e ricordo. Cuore e ragione. Passione e razionalità. Pantani dieci anni dopo sta nel mezzo. Al pubblico, ai suoi tifosi decidere il sentimento. Pantani e la sua grinta sul sellino che non si può comprare in farmacia. Pantani lasciato solo al comando di una corsa chiamata vita “quando pensi di essere davvero il personaggio che rappresenti e vivi di conseguenza, allora è la fine”.

Dopo tutto, Pantani ri-vive.

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