Manzù l’anima nella scultura

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Modellava i suoi corpi come la cera – e con la cera – seguendo Medardo Rosso. Li adombrava con uno sfumato che rimetteva in vita Leonardo, e le nebbie bergamasche. Scivolava su di loro la luce, come se vi soffiasse l’anima: e le sue cose – ritratti, storie, gruppi, nature – prendevano calore, aprivano gli occhi (senza aprirli) sul mondo. Dentro, innato, restava il senso dell’eterno. Percorrendo le sale di Palazzo Venezia, dopo disegni e sculture di una vita lunghissima d’artista (1927-1991), si resta stupiti di un’arte così aristocratica. E libera. Un’aristocazia non di natali né di posa, ma di linguaggio e di carattere. Manzù imprime in ogni cosa che crea una visione immediatamente alta, nella concisione delle forme, nella facilità di modellazione della materia, marmo cera gesso legno o bronzo. Con le sue grosse mani di artista- artigiano, lo scultore trasforma la materia in religiosa presentazione di una bellezza superiore. Per questo forse acquista con gli anni la capacità di trattare tutto, senza alcuna sottomissione se non al suo spirito. Che il tempo rende più raffinato, e meravigliosamente “semplice”. Ancor giovane, offre nel Chitarrista (1929) un saggio di quell’equilibrio fra classico e moderno che caratterizzerà la sua arte: forme solide, in una sintesi “egizia”, volto “sfumato” (ma non inespressivo), essenzialità del gesto che richiama l’anima, da subito: la musica, prima che fatto sonoro, è elemento spirituale. Il Ritratto di signora (1946) nobilmente composto, si libra nel sorriso del volto, nella leggerezza del corpo come materia trasfigurata. Parrebbe, Manzù, un contemplativo; se non fosse che proprio in quegli anni di guerra, sfodera un poesia epica di alto valore morale, dove i temi sacri diventano metafora della condanna di ogni violenza. L’Ecce Homo del ’44 è un operaio assorto nel dolore, dignitosamente libero. Ma il Cristo con generale del ’47, col grosso milite nazista accanto ad un “povero Cristo” impic- cato come un partigiano, è un grido smorzato nei gesti e negli spazi contro ogni guerra: in questo piccolo bassorilievo in bronzo Manzù alza il tono della sua arte, con lo stesso dolore dei versi “spezzati” di un Ungaretti. Si ritroverà questo spirito, sublimato, nella Porta della morte in San Pietro, lavoro sofferto per anni. Uno sguardo dall’alto su tutte le morti possibili: dalla violenza cieca di Caino, alla trasfigurazione di Maria, dal pianto innocente di un bambino, al trapasso sereno di un papa Giovanni… È qui la costatazione: soltanto un animo di primigenia purezza può parlare così della vita, e di ogni espressione della vita. Per cui sbalordisce la libertà creativa con cui, con la medesima naturale foga, il Bambino con l’anatra (1947) si stringe impetuosamente all’animale come nel 1966 faranno, senza alcun erotismo, i due Grandi amanti. Libertà, amore, dolore. Un secolo di storia contemporanea, con uno sguardo che affonda le radici nel passato ma ben fermo al presente, è la linfa da cui Manzù prende continua ispirazione. L’anima lombarda e contadina gli suggerisce la tematica degli affetti più sinceri: la madre, i bambini. La Madre con bambino del ’68, classica come una madonna donatelliana, forma scura nell’ebano, è un concentrato di sentimento allo stato assoluto. Mentre i bambini – i suoi, Giulia e Mileto – sorridono nella carrozza, la cui linea flessibile pare ripetere all’infinito l’eco di quel riso infantile. Nella vecchiaia, Manzù in un certo senso si trasfigura: “chiude” ancor più solidamente le figure in un pudore di sentimenti: sembra che per lui tutto diventi luce. Il San Giorgio, bronzo dorato del ’72 è un guerriero che si sfila l’elmo a riposare sotto il fascio dell’oro; il Cardinale seduto del ’79 (una delle infinite variazioni sul tema), appare metafisica presenza di un “oltre”. La materia si impregna di luce, geometricamente stilizzata: vi si riconosce il cammino dal germoglio classico su fino a Rodin, Rosso, Martini e Moore. Manzù, come invece altri coetanei, non crede alla morte della scultura figurativa: la riesplora, inventando per essa la qualità “lunare” della luce. Batte infatti sui suoi lavori (Tebe che cade, 1985; Ulisse, 1989, Grande cardinale seduto, 1983) questo lume che sa di cieli del nord, fra monti o campagne, e si concretizza nel suo essere a un tempo naturale e metafisico. Come l’arte di Manzù, severa e cordiale, muta ed eloquente. Questo scultore, Ulisse moderno dell’anima che non scorda la sua Itaca, cerca nel piccolo o nel minuscolo (oreficerie) e nel gigantesco (i monumenti) sempre la medesima cosa: l’assoluto. Come i grandi vecchi – il Michelangelo della Rondanini e il Tiziano della Pietà, il Beethoven della Sonata op.111 e il Dante dell’ultimo Paradiso – sembra lo trovi nella dissoluzione della forma in luce totale: come i quaranta centimetri di marmo dell’ultimo Cardinale. Il bergamasco dagli umori variegati – un po’ Caravaggio, un po’ Leonardo – schivo e inflessibile, dopo aver compatito il dramma del suo secolo, approda così, naturalmente, dove la forma si fa perfetta: ed è poesia, soltanto. MANZÙ,VITA DI UN UOMO 1908: nasce il 22/12 a Bergamo. 1930: si trasferisce a Milano, è vicino a Carrà e al movimento “modernista”. 1933: prima personale presentata da Piero Bargellini. 1938: viaggio a Parigi, approfondisce gli scultori francesi. 1948: alla Biennale di Venezia, priomo premio per la scultura, ex aequo con Henry Moore. 1964: inaugurazione della Porta della morte in San Pietro. Ritiro con la famiglia ad Ardea, presso Roma. 1969: lavora alla scenografia di opere liriche. 1973: grande personale a Tokyo. 1989: all’Onu l’ultima sua grande scultura, la Madre col bambino. 1991: muore ad Ardea il 18/1.

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