Maneskin… mania

Un fenomeno dilagante, un successo internazionale non privo di chiaroscuri. Vediamo i dubbi e le critiche dei professionisti del settore per questa band che tanto fa parlare di sé
Maneskin

Sono passati tre mesi dalla vittoria al festival di Sanremo e pochi giorni dal trionfo all’Eurovision Song Contest e i Maneskin sembrano essere sulla bocca di tutti. Il nome della band romana ha iniziato a girare anche in altre nazioni, le loro canzoni stanno spopolando sulle playlist ufficiali di mezzo mondo.

Viene da chiedersi come mai, visto che nel nostro Paese, seppur molto amati da una grande fetta di pubblico, vengono definiti dai “puristi del rock” (ne esistono ancora tantissimi) come una band finto alternativa, patinata e soprattutto poco innovativa. E non parliamo dell’Inghilterra o degli Stati Uniti, ma dell’Italia: un posto dove il rock non ha mai avuto un successo internazionale, dove tutto quello che di più interessante veniva creato rimaneva nel sottobosco dell’underground, a lottare tra centri sociali e piccoli palazzetti.

Nel mondo, non ci è mai stato riconosciuto un simbolismo degno di altri grandi nomi (gli altri avevano i Pink Floyd, i Beatles, i Led Zeppelin) e ci è sempre andata bene così, noi esportavamo altro (e importavamo altrettanto).

Ora, anche in contesti in cui il vero rock’n’roll si è sviluppato, i Maneskin non sembrano far così ribrezzo. E allora perché da noi non si riesce semplicemente a essere contenti per un gruppo di ventenni che spopola nei mercati discografici? E perché, tralasciando chi sale sul carro del vincitore a proprio comodo, ci dev’essere questo ostruzionismo anche da parte di colleghi musicisti e professionisti del settore?

Emma Marrone ha voluto sottolineare il fatto che, quando fu lei a partecipare all’Eurovision, tutti parlarono del suo abbigliamento e poco della musica (ogni tanto sarebbe il caso di chiedersi perché).

Cristina Scabbia dei Lacuna Coil fa i complimenti ai giovani vincitori, ma aggiunge: «Il rock, a voi italiani, non faceva schifo?».

È impossibile ignorare le sirene dell’invidia, riecheggiano violente nell’aria.

Che problema abbiamo con questi quattro ragazzi? Quali sono le aspettative disilluse che si riponevano su di loro?

Chiariamo un concetto: il rock è cambiato. Se ne facciano una ragione i nostalgici e gli amanti della purezza di stile. Tutto quello che è stato non tornerà se non con sembianze diverse. E quindi, lunga vita all’innovazione.

La questione messa sul banco dai critici più accaniti riguarda soprattutto la spontaneità del progetto.

L’ispirazione musicale della band si può ricondurre a un gusto per il retrò quasi anacronistico ma sulla carta efficace, capace di essere accattivante e rassicurante nello stesso tempo. Spulciando tra i vari social, si può notare come il progetto Maneskin abbia in realtà attecchito in fasce d’età insospettabili, andando a rapire l’attenzione di un pubblico anagraficamente variegato in cui spiccano gli ultrasessantenni, orfani di un riferimento musicale commerciale (con la C maiuscola) degno dei “tempi andati”. Quel pubblico all’apparenza così distante, però, è lo stesso che comprerà i dischi e porterà i figli ai concerti. E al manager della band andrà benissimo così.

È diventato un caso degli ultimi giorni il cambio di management da parte del gruppo, ora accusati di aver tradito la persona che più li ha spinti per arrivare al successo. Si sa come vanno le cose, basta non prenderle troppo sul serio. I Maneskin sono un prodotto commerciale, studiato a tavolino per arrivare a concorrere per grandi marchi.

Non ce ne voglia la Pepsi (con la quale la band ha firmato un accordo nei giorni scorsi), ma il rock è altro. E tanta fortuna ai Maneskin.

Se anche un solo adolescente oggi sta pensando di comprare una chitarra dopo aver visto un loro concerto, saremo i primi a toglierci il cappello. Alla faccia della nostalgia.

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