Mamme assassine

Da diverso tempo l'opinione pubblica è travolta suo malgrado da fatti di cronaca che rasentano l'assurdo e l'incomprensibile.
neonato

Mi riferisco in particolare a quelle mamme (spesso giovani) che uccidono i propri figli (quasi sempre) piccoli con una disinvoltura tale da lasciare il fiato in gola per la spietatezza e la fredda determinazione.

 

Abbiamo la mamma che brucia l’auto con dentro la figlioletta di tre anni, oppure la mamma che sgozza nella vasca da bagno i suoi due figlioletti di pochi anni, oppure la mamma che cerca di annegarsi insieme alla figlia gettandosi in mare col risultato che lei si salva e la figlia no, oppure la mamma che picchia selvaggiamente il figlio di quattro anni sfondandogli il cranio, oppure quella che vola con due figli dal sesto piano di un palazzo. Basta aprire un quotidiano e nelle pagine della cronaca nera troviamo di tutto e di più.

 

Davanti a questi episodi è lecito scandalizzarsi? Certamente sì, anche se rischiamo di avere poca memoria del nostro passato: già nell’antica Grecia fenomeni di questo genere erano abbastanza diffusi, tant’è che uno dei capolavori più famosi del teatro greco è la tragedia “Medea”, scritta da Euripide e messa in scena ad Atene nel 431 a.C., la cui protagonista, mamma assassina, preferiva vedere i suoi nemici soffrire piuttosto che i suoi figli vivere.

 

Resta comunque lo sconcerto davanti a un fenomeno che purtroppo oggi si sta diffondendo in maniera allarmante e quasi sempre le frasi di circostanza che accompagnano questi fatti dicono poco o nulla: “un gesto di follia”, “era sotto stress”, “si stava separando”.

 

La realtà, invece, è che dietro questi gesti estremi c’è sempre in agguato la depressione. Una depressione spesso non diagnosticata in tempo, oppure non affrontata adeguatamente, perché spesso ci si limita al solo intervento psicofarmacologico.

 

Il fatto è che la mamma assassina immersa nella depressione adora i figli che uccide e non li odia anzi, ama così tanto i propri figli che desidera evitargli le brutture e le sofferenze della vita. Paradossalmente c’è “troppo” amore verso i figli, per cui preferisce sopprimerli piuttosto che sapere che un giorno soffriranno come oggi soffre lei. Spesso si muore insieme ed allora si tratta di “suicidio allargato”; in esso non c’è la consapevolezza di arrecare del male ai figli, anzi c’è il desiderio assurdo di proteggerli da un futuro incombente e minaccioso.

 

Una considerazione clinica (anzi un auspicio) che mi sento di fare dopo anni di lavoro in campo psicoterapeutico è quella di tenere sotto osservazione lo stato mentale di tutte le partorienti, e quindi di tutte le mamme che hanno partorito da poco, onde evitare la cosiddetta “depressione post-partum”, più diffusa di quanto si sospetti. Ovviamente non si tratta di scatenare una caccia alle streghe nelle corsie ostetriche-ginecologiche, bensì prevedere ed affiancare un servizio di supporto psicologico alle neomamme.

 

Ma al di là di questo auspicio, è molto importante, come dicevo, non limitare l’intervento di contrasto alla sfera esclusivamente farmacologia, con prescrizione di antidepressivi. Dobbiamo chiederci perché siamo arrivati a questa diffusione così massiccia della depressione tra le mamme.

 

Forse si è dimenticato il valore della maternità? Certamente no, altrimenti il ripiego sarebbe l’aborto, mentre invece abbiamo mamme che portano avanti gravidanze spesso difficili e poi partoriscono. E allora che succede? Le mamme di oggi sono esposte ad una probabilità dieci volte superiore a quella delle loro nonne di soffrire di depressione grave. Per spiegarlo vorrei fare riferimento a due tendenze allarmanti: l’affermazione del sé e il declino del senso della comunità. Su queste due cause bisogna lavorare, senza limitarsi a chiedere l’intervento dello psichiatra.

 

La società in cui viviamo, esaltando il sé, attribuisce ai successi e ai fallimenti un’importanza senza precedenti. La nostra economia prospera sempre più sui desideri dell’individuo. La nostra società riconosce al sé una capacità mai considerata: il potere di cambiare perfino il modo di pensare. Non a caso la nostra epoca si definisce l’età del controllo personale.

 

E quale controllo personale può desiderare una mamma se un altro essere umano appena nato, o piccolissimo, la intralcia nei movimenti e nelle espressioni? Anzi, il sé è espanso nella nostra società ad un punto tale che lo stato di impotenza di un individuo, ed a maggior ragione di una mamma giovane, viene ritenuto un disturbo da curare piuttosto che una condizione da accettare.

 

Contemporaneamente, l’affermazione del sé nella nostra epoca ha coinciso con il declino del senso di comunità e la perdita di obiettivi più elevati. La vita fine a se stessa è davvero una vita povera, mentre gli esseri umani hanno bisogno di un contesto pieno di significato e speranza. Un tempo questo mondo di valori era molto vasto per cui, di fronte al fallimento o agli smacchi della vita, gli individui potevano trarre ristoro da questa ricchezza spirituale ritrovando le ragioni dell’esistenza.

 

Questo contesto più ampio si può definire “comunità”, dove chiunque può aspettarsi un aiuto o una protezione, un tempo garantite dalle famiglie patriarcali, dalle balie, ma soprattutto dall’alta considerazione che riceveva l’essere mamma. Insomma proprio tutto quello che le mamme giovani di oggi si aspetterebbero di ricevere anch’esse nel periodo, gravoso per loro, di tirare su le nuove generazioni. Si tratta quindi di recuperare quei contatti comunitari fatti di apertura ad altre mamme, ad altre famiglie, con i vicini di casa, cominciando proprio dove si vive e cioè dal proprio quartiere.

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