Alla fine è andata come i sondaggi avevano previsto: Zohran Mamdani, il candidato che agli occhi dell’America tradizionale (sempre che ne esista ancora una) rappresenta quanto di più eterodosso si possa immaginare – giovane (34 anni), musulmano, nato all’estero (e quindi non potrà un domani diventare presidente: tanto meglio per gli avversari), socialista democratico e filopalestinese dichiarato: insomma, l’unica cosa che ha “in ordine” è il fatto di non essere gay, ma felicemente sposato con Rama Duwaji, illustratrice di origini siriane – è stato eletto sindaco di New York.
E hanno avuto ragione quei sondaggi che gli attribuivano la maggioranza assoluta (alcuni infatti lo proiettavano leggermente sotto): a scrutinio ormai ultimato gli viene infatti attribuito il 50,4% dei voti, contro il 41,6% dell’indipendente Andrew Cuomo e il 7,1% del repubblicano Curtis Sliwa. Non sarebbe insomma bastato che, come alcuni avrebbero voluto, Sliwa si ritirasse dati i suoi limitatissimi consensi previsti (il diretto interessato ha riferito di aver rifiutato un’offerta di 10 milioni di dollari per farlo) così da trasferire i suoi voti su Cuomo, ex democratico lanciatosi nella corsa in solitaria dopo aver perso le primarie del partito, confidando sui voti “al centro” sia dei democratici che dei repubblicani moderati: avrebbe vinto Mamdani lo stesso. Va inoltre notato che parliamo, in totale, di 2 milioni di votanti su una popolazione cittadina di quasi 8 milioni e mezzo, eppure viene definita una partecipazione senza precedenti.
È interessante l’analisi del voto che fa, dati alla mano, il New York Times. Sulla base dei diversi distretti, si vede che Mamdani, che ha fatto della lotta al caro affitti e della gratuità del trasporto pubblico e dei servizi per l’infanzia i cavalli di battaglia della sua campagna elettorale, è arrivato a picchi di consenso del 62% nelle aree dove risiedono principalmente pendolari, e al 57% in quelle in cui vivono affittuari. Percentuali superiori al 50 anche nei quartieri in cui risiedono ispanici, afroamericani e asiatici: e qui il commentatore Nate Cohn nota come i risultati siano stati migliori che alle primarie per Mamdani, cosa non scontata, dato che è ormai assodato negli Usa che queste minoranze dimostrano scetticismo verso politiche “radicali”, viste come contrarie agli interessi degli immigrati regolari in favore degli irregolari. Cuomo ha invece superato il 50%, viceversa, nelle aree abitate prevalentemente da proprietari di casa e di auto, da bianchi e da elettori di Trump.
Secondo Nicholas Fandos, sempre sul NYT, la campagna di Mamdani ha avuto successo non solo per la mobilitazione senza precedenti che si è vista in suo favore, ma anche per il fatto di essere riuscito a «disarmare delicatamente alcune delle persone più potenti in America», passando per circuiti alternativi ai media tradizionali, sistemi di finanziamento al di fuori dei circuiti consolidati (come una giornata di caccia al tesoro cittadina e tornei di calcio), che i suoi avversari avevano ampiamente sottovalutato. Così come avevano sottovalutato la presa che poteva avere un giovane pressoché sconosciuto e alfiere del “cambiamento” (una ricetta talmente buona per tutte le stagioni da essere ormai considerata minestra riscaldata), contro un candidato come Andrew Cuomo, già governatore e figlio dell’ex governatore Mario, “establishment che più establishment non si può”. Ma li ha disarmati, osserva sempre Fandos, anche alleandosi con alcuni esponenti dell’élite newyorkese: essendo un «figlio di due figure culturali di spicco [il professore universitario Mahmood Mamdani e la regista Mira Nair, ndr], si trova a suo agio con persone ricche e influenti. Ha spiegato loro perché i punti centrali del suo programma non sarebbero cambiati, ma ha chiesto e accolto suggerimenti e dimostrato più flessibilità di ciò che sua fama avrebbe lasciato pensare». Insomma, radicale sì, ma in fin dei conti arriva dalla “New York bene” e sa come convincerla.
Il New Yorker titola «Inizia l’era Mamdani», e nell’articolo di Erich Lach torna sul tema di come i newyorkesi abbiano «voluto Zohran Mamdani»: non quindi un voto “contro” Cuomo, che pure hanno dimostrato di “non volere”, ma “per” la novità rappresentata dal sindaco eletto. Il New York Post titola ironicamente la sua versione online «Vedere rosso», un gioco di parole tra il “rosso” nel senso di “comunista”, etichetta affibbiata a Mamdani daTrump, e il modo di dire inglese che significa “essere furiosi”, mettendoci accanto una foto di Trump arrabbiato; e titola invece la versione cartacea “The Red Apple”, la mela rossa, in contrapposizione al nomignolo di new York “la Grande Mela”. Il New Yorker pone molta enfasi anche sulle parole del primo discorso di Mamdani da sindaco eletto: «Amici miei, abbiamo rovesciato una dinastia politica. Auguro ad Andrew Cuomo ogni bene, ma questa è l’ultima volta che pronuncerò il suo nome». Battaglia chiusa, insomma: niente recriminazioni, si va avanti. Del resto lo stesso Cuomo, pur tra i fischi dei suoi sostenitori, si era congratulato con il neosindaco quando, appena 40 minuti dopo la chiusura dei seggi, la vittoria di Mamdani era apparsa già certa.
Se sono apparse su tutti i giornali le parole veementi di Donald Trump contro Mamdani su X, e l’ironica risposta del diretto interessato durante il suo discorso della vittoria («Donald Trump, so che stai guardando, ho tre parole per te: alza il volume»), The Atlantic dà oggi una lettura diversa del contrasto tra i due. Definisce infatti la vittoria di Mamdani ciò che Trump voleva per ingaggiare una guerra in cui è convinto di uscire vincitore – ha già minacciato di tagliare i fondi federali alla città – e tirare acqua al suo mulino in un momento in cui il partito democratico appare quantomai polarizzato tra un’anima di sinistra e una di centro.
Il Washington Post allarga lo sguardo anche alle vittorie democratiche nelle elezioni per i governatori in Virginia e New Jersey e sulla redesignazione dei distretti elettorali in California, identificando con l’editorialista J.M. Rieger tre punti fondamentali: la grande ripresa del partito democratico dopo la disfatta delle presidenziali 2024, il calo di popolarità di Trump – che aveva sostenuto apertamente Cuomo a New York e i candidati repubblicani in Virginia e New Jersey -, e la risposta della California a tentativi analoghi, ma in senso inverso, di ridisegnare i distretti elettorali in favore dei repubblicani in altri Stati, che ha innescato una “guerra di metà decennio”.
La vittoria di Mamdani ha naturalmente catalizzato l’attenzione anche nel resto del mondo: El Paìs titola «Il giovane socialista conquista New York con la sua promessa di cambio di fronte rispetto a Donald Trump», Le Monde «Il primo socialista rivendicato e primo musulmano consacra una nuova linea politica: riduzione del costo della vita, tassazione dei più ricchi e opposizione totale a Donald Trump», il Guardian «Il neoletto Zohran Mamdani sfida Donald Trump nel suo discorso della vittoria».
Proprio quest’ultimo, però, ricorda ai democratici d’oltreoceano che «se perdere le elezioni è un male, vincerle ma leggere male i risultati è peggio»: non si può infatti disconoscere che si trattava di vittorie praticamente già scritte in virtù della debolezza dei candidati repubblicani in queste specifiche elezioni, del posizionamento “centrista” dei candidati governatori (e quindi antitetico rispetto a quello “radicale” di Mamdani), e che a livello nazionale la reputazione dei partito è ancora ai minimi storici. Una situazione in cui sarebbe sbagliato credere di avere la strada spianata verso le elezioni parlamentari dell’anno prossimo e delle successive presidenziali, tanto più che sono in tanti ad aspettare Mamdani al varco per dimostrare l’inattuabilità, e anzi la dannosità, delle sue politiche effettivamente assai difficili da realizzare.