Mahsa Amini, un anno dopo

Un anno fa, il 16 settembre 2022, moriva a Teheran Mahsa Amini, la ragazza curda 22enne uccisa a calci e pugni dalle guardie della polizia morale, per una ciocca di capelli scivolata fuori dall’hijab.
Mahsa Amini
Donne iraniane, alcune senza indossare il velo islamico obbligatorio, camminano nel centro di Teheran, Iran, sabato 9 settembre 2023, durante il primo anniversario delle proteste nazionali contro la legge sul velo obbligatorio. (AP Photo/Vahid Salemi)

Scriveva qualche giorno fa Mahmood Amiry-Moghaddam, fondatore di Iran Human Rights (iranhr.net), una ong con sede in Norvegia: «Mancano dieci giorni all’anniversario della morte della giovane ragazza curda che ha segnato l’inizio della rivoluzione in Iran, e Khamenei e i suoi si stanno preparando con l’unico strumento che conoscono: la repressione. Il regime teme che possano esserci manifestazioni di piazza per cui, nelle ultime settimane ha aumentato le intimidazioni, le minacce, gli arresti».

Iran Human Rights non è certo l’unica agenzia internazionale per i diritti umani che testimonia quanto avviene nella repubblica islamica del regime iraniano: le notizie diffuse dalle numerose organizzazioni dissidenti sono notoriamente molto variegate, con posizioni politiche ad ampio raggio, ma comunque sempre ben documentate e con profonde radici nel Paese. E il regime iraniano questo lo sa molto bene e, nonostante il disappunto, deve tenerne conto. A volte però non basta negare, accusare e minacciare. È probabilmente quanto è successo per la morte di Javad Rouhi, un 35enne attivista detenuto da novembre 2022. Un comunicato dell’agenzia di stampa della magistratura iraniana, Mizan, riferisce: «Secondo l’ufficio per le relazioni pubbliche del carcere di Noshahr, Javad Rouhi, un detenuto legalmente incarcerato, è stato trasferito all’ospedale Shahid Beheshti di Noshahr alle 3:45 del mattino di giovedì 31 agosto, a causa di convulsioni. Purtroppo, nonostante gli sforzi medici, non è sopravvissuto».

Capita che ad una persona vengano convulsioni epilettiche, soprattutto se aggiugiamo quanto i giudici di Mizam non dicono, cioè: dopo mesi di orribili torture. Arrestato durante una manifestazione di protesta contro il regime, 2 mesi dopo la morte di Mahsa Amini, in 45 minuti di processo a gennaio scorso Rouhi era stato condannato a morte per apostasia, per aver diffuso la corruzione sulla terra e aver mosso guerra a Dio (cioè dichiarato colpevole di moharebeh). A maggio la condanna capitale era stata sospesa e Rouhi rinviato a giudizio per aver guidato la rivolta e distrutto proprietà, oltre all’apostasia per aver bruciato un Corano durante una manifestazione. Tutte accuse presunte e a quanto pare non provate, se non del tutto infondate. Poi, ad agosto, il tragico “incidente” delle convulsioni. Le torture subite per mesi da Javad Rouhi sono state denunciate da Amnesty International e descritte con cruda precisione da Human Rights Watch (hrw.org), che non rivela la sua fonte per non esporla alla persecuzione del regime.

Maryam Rajavi, esule dal 1982 e presidente del Consiglio Nazionale della Resistenza iraniana (Ncri), espressione dei mojahedin del popolo iraniano (it.ncr-iran.org), ha recentemente affermato che il regime di Teheran, nel timore di una ripresa delle rivolte in occasione dell’anniversario della morte di Mahsa Amini, ha intensificato la repressione nelle prigioni e nelle università, estendendola in particolare alle famiglie dei carcerati ed a quelle delle vittime e dei martiri: tra gli altri la settimana scorsa è stato arrestato, a Saqqez, lo zio di Mahsa Amini, Safa Aeli, 30 anni, colpevole di non accettare l’uccisione della nipote.

A proposito della ripresa delle proteste in Iran il 16 settembre prossimo, Mahmood Moghaddam, di Iran Human Rights, ha detto: «Non importa se lo faranno il 16 settembre, o il 17, o due settimane dopo, le proteste non sono mai finite. In un anno, gli ayatollah hanno messo in carcere dalle 20 alle 30 mila persone. Ne hanno impiccati 700, [compresi quelli] non legati alle proteste, ma sempre per spaventare il popolo. Vuol dire due impiccati al giorno. A noi tutti è chiara una sola cosa: non si torna più indietro».

Il rispetto dell’obbligo del velo è diventato per il regime una vera ossessione, probabilmente anche per il timore inconfessabile che le rivolte riescano ad abbattere il regime stesso. Così, nei mesi scorsi, un’apposita “Commissione parlamentare” avrebbe messo a punto un nuovo regolamento, se possibile ancora più repressivo, denominato “Supporto alla cultura dell’hijab e alla castità”. Pare che il “Supporto” preveda la condanna fino a 15 anni di reclusione per le donne colpevoli di non aver più volte indossato correttamente l’hijab (il velo). In aggiunta sarebbe anche prevista per le recidive una multa equivalente a 5 mila euro, la confisca dei beni, l’interdizione da qualsiasi professione e la privazione di tutti i benefici sociali. Mancano solo le convulsioni, ma quelle sono imprevedibili.

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