Magnifica presenza

Spicca l'ultimo lavoro di Ferzan Ozpetek tra le uscite del week-end
Magnifica presenza

Fra l’horror fantasy L’altra faccia del diavolo, con il solito Vaticano in mezzo, il superfluo Dieci regole per farla innamorare – filmetto per teenagers, di scarso pepe –, l’avventuroso John Carter (già recensito la scorsa settimana, come il pessimo Ti stimo fratello), spicca l’ultimo lavoro di Ferzan Ozpetek, cioè Magnifica presenza.
 
Ozpetek esce dal solito quartiere Ostiense e questa volta situa l’azione a Monteverde, in una vecchia casa dove capita l’ingenuo ragusano Pietro, dalla sessualità incerta, timido e sensibile, venuto a Roma per far cinema e finito invece a sfornare cornetti di notte. Ma la casa non è disabitata, perché aleggiano sei fantasmi di una compagnia teatrale finita male nell’ultima guerra. Con la quale Pietro dovrà fare i conti.
 
È sogno o realtà? È una sublimazione delle frustrazioni o sono i desideri inconsci del giovane ciò che vede e sente, o è solo immaginazione? In fondo la vita è «finzione», gli fa dire Ozpetek.
Sottile, colorato come sempre, ben diretto, con un Elio Germano perfetto nel mescolare sbalordimento, ingenuità, fragilità, il film è ambizioso. Omaggia il cinema del passato, da Dario Argento a Wim Wenders, sparge un senso di borotalco su una vicenda dai mille rivoli, ma che non approfondisce perché resta su una superficie di compiaciuto estetismo, perdendo l’occasione di scavare sulla vicenda e renderla universale, anziché restare nei ritratti di singole scene in sé perfette, ma che rischiano di rimanere poco serrate con le altre.
 
Ozpetek, che cita anche sé stesso – certe arie da Fate ignoranti, Finestra di fronte –, è certo in cerca di nuovi impulsi, di nuove vie: sembra sulla finestra di un approfondimento, ma poi, quasi lo temesse, scivola via. Ma l’idea centrale del film è suggestiva: siamo oggi tutti fragili, indecisi su tutto, non sappiamo se la vita sia vera o sia una commedia. Come nel testo pirandelliano, cerchiamo un autore. Non per nulla, il film si chiude sul palcoscenico del Teatro Valle con lo sguardo lunghissimo di un sbalordito Elio Germano. Ha vissuto o ha sognato?
 
Spunti riflessivi nel film non mancano, con alcuni momenti tesi – la sfuriata di Massimo (Giorgio Marchesi) contro Pietro, il racconto tragico di Livia Morosini (una grande Anna Proclemer) –, in particolare l’urgenza di liberarsi dalle maschere che tutti indossiamo (la cugina di Pietro, Paola Minaccioni) e a cui ci adattiamo. Sono molti, forse troppi, e il regista descrive, suscita simpatia e qualche risata. Tutto è magnifico, tutto è fragile. Come Pietro, come ciascuno di noi. Aspettiamo Ozpepek alla prossima, più sofferta speriamo, puntata.

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