In Italia solo dal 1963, grazie alla legge 9 febbraio 1963, n.66, le donne possono accedere alla magistratura : sono trascorsi quindi sessant’anni dall’atto normativo che ha consentito alle persone di sesso femminile di diventare magistrate.
Eppure già nella Costituzione repubblicana, promulgata il 27 dicembre 1947 ed entrata in vigore il 1° gennaio 1948, è sancito il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, «senza distinzione di sesso…» ( art. 3 comma 1 ), specificato nell’altro principio secondo il quale «Tutti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge» ( art. 51 comma 1 ). Come si spiega e giustifica, allora, il fatto che si sia dovuto attendere la legge sopra menzionata del 1963 per permettere alle donne di fare ingresso in magistratura, quando già nella Costituzione del 1948 si proclamava il principio dell’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive in condizioni di eguaglianza per gli appartenenti all’uno e all’altro sesso?
Si spiega, storicamente, con il ritardo culturale dei nostri Costituenti e del nostro Parlamento (dopo l’approvazione della Costituzione) e con il persistere in seno ad essi di pregiudizi resistenti e radicati in ordine alla condizione della donna: ciò malgrado il forte impegno delle 21 donne elette all’Assemblea Costituente (una esigua minoranza) per l’accesso delle donne alla carriera giudiziaria. È del tutto vero, dunque, che «l’accesso rimaneva precluso a causa dei pregiudizi maschilisti, radicati e invincibili…» (così Eliana Di Caro nel suo volume Magistrate finalmente, Bologna, 2023, pag. 7): come testimoniano inequivocabilmente alcuni degli interventi dei Costituenti di sesso maschile (come l’on. Giovanni Leone, secondo il quale «… negli alti gradi della Magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possano mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni », o l’on. Giuseppe Cappi, secondo il quale «nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento»).
Così l’impegno delle poche e valorose donne presenti nell’Assemblea Costituente risulta in parte vano e alla fine resterà in vigore la legge 17 luglio 1919, n.1176 (nota come legge Sacchi), il cui articolo 7 recita: «Le donne sono ammesse, a pari titolo degli uomini, ad esercitare tutte le professioni ed a coprire tutti gli impieghi pubblici, esclusi soltanto, se non vi siano ammesse espressamente dalle leggi, quelli che implicano poteri pubblici giurisdizionali o l’esercizio di diritti e di potestà politiche, o che attengono alla difesa militare dello Stato secondo la specificazione che sarà fatta con apposito regolamento».
Solo quindici anni dopo l’approvazione della Costituzione sarà finalmente consentito alle donne di accedere alla magistratura, sanando un vulnus di notevoli proporzioni rispetto all’impianto paritario del dettato costituzionale sopra richiamato: ciò grazie alla menzionata legge n.66 del 1963, relativa alla «Ammissione della donna ai pubblici uffici ed alle professioni». Ma questa importante legge è precedutada segnali anticipatori già dalla seconda metà degli anni Cinquanta, con l’approvazione di una legge che disciplina la «partecipazione delle donne all’amministrazione della giustizia nelle Corti di Assise e nei Tribunali per i Minorenni»( legge 27 dicembre 1956, n.1441 ): si può dire che «Con tutti i suoi limiti, a partire dal vincolo numerico nelle Corti d’Assise, si tratta di un piccolo passo dalla forte valenza simbolica, perché con esso s’incrina il divieto imposto alle donne di varcare la soglia dei Tribunali…» (E. Di Caro, op. cit., pag. 21).
Ancor più significativo, nel 1960, un altro evento giuridico: la Corte costituzionale, entrata in funzione solo da quattro anni, pronuncia una sentenza davvero storica, dichiarando incostituzionale l’art. 7 legge 1176/1919 (sopra riportato) per violazione dell’art. 51, 1° comma, Cost. (sentenza 18 maggio 1960, n.33). In motivazione la Corte precisa che «non può essere dubbio che una norma che consiste nell’escludere le donne in via generale da una vasta categoria di impieghi pubblici, debba essere dichiarata incostituzionale per l’irrimediabile contrasto in cui si pone con l’art. 51, il quale proclama l’accesso agli uffici pubblici e alle cariche elettive degli appartenenti all’uno e all’altro sesso in condizioni di eguaglianza».
Va aggiunto che la questione era stata sollevata dal Consiglio di Stato a seguito del ricorso presentato dalla dott.ssa Rosanna Oliva, laureata in Scienze politiche, contro il Ministero degli Interni, per l’esclusione dal concorso per la carriera prefettizia determinata dall’art. 7 della legge Sacchi (che, come già detto, escludeva le donne dagli impieghi pubblici che implicano «l’esercizio di diritti e di potestà politiche»).
La citata sentenza della Corte costituzionale fa da “apri-pista” all’intervento normativo finalmente compiuto dal legislatore nel 1963, che rimuove l’ostacolo che impediva l’accesso delle donne alle funzioni giudiziarie: con due brevi articoli si stabilisce che «La donna può accedere a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici, compresa la Magistratura, nei vari ruoli, carriere e categorie, senza limitazione di mansioni e di svolgimento della carriera, salvi i requisiti stabiliti dalla legge. L’arruolamento della donna nelle forze armate e nei corpi speciali è regolato da leggi particolari» (Art. 1) e che «La legge 17 luglio 1919, n.1176, il successivo regolamento approvato con regio decreto 4 gennaio 1920, n.39, ed ogni altra disposizione incompatibile con la presente legge sono abrogati» ( Art. 2 ).

Anni ’90, il magistrato Maria Gabriella Luccioli. Fu una delle prime 8 donne a entrare in magistratura vincendo lo storico concorso del 1963. (Foto: LaPresse)
È la svolta tanto attesa da 15 anni, dall’approvazione della Costituzione italiana: e la lunga attesa fa sì che rapidamente (il 3 maggio 1963) venga indetto il nuovo concorso in magistratura aperto anche alle donne, concorso che due anni dopo, all’esito delle prove scritte ed orali, determinerà l’ingresso in magistratura delle prime otto donne, vincitrici di questo storico concorso. Si tratta (indicate in ordine alfabetico) di Graziana Calcagno, Emilia Capelli, Raffaella D’Antonio, Giulia De Marco, Letizia De Martino, Annunziata Izzo, Ada Lepore e Maria Gabriella Luccioli.
Nel libro di Eliana Di Caro già citato si traccia un esauriente ritratto delle «prime giudici d’Italia» (che è anche il sottotitolo del suo volume): molto opportunamente l’autrice rievoca il percorso professionale e umano di queste donne particolari, che negli anni Sessanta del secolo scorso hanno fatto ingresso in un mondo fino ad allora riservato agli uomini. Percorsi diversi e peculiari per ciascuna di loro, ma accomunati dalle difficoltà soprattutto iniziali di farsi accettare e riconoscere in un ruolo che era prerogativa maschile: chiaramente i pregiudizi sociali e culturali non erano cessati con l’approvazione della legge n.66 del 1963. Alcune di queste magistrate-capofila sono ancora viventi, tre di loro sono mancate (Ada Lepore, la più sfortunata, sin dal 1979, Graziana Calcagno nel 2018 e Raffaella D’Antonio nel 2021). Dai loro ritratti emergono storie di impegno e dedizione nel lavoro, da giudice minorile o giudice civile o penale, di successi professionali e di vicende difficili o drammatiche, sempre con la consapevolezza del proprio ruolo e con la passione per il lavoro di giudice. Anche le fotografie che compaiono nel libro contribuiscono a rendere più vivo il profilo umano e professionale di queste “pioniere” della magistratura.
Dal 1963 ad oggi la magistratura è molto cambiata, ovviamente, così come è cambiata la società italiana, e naturalmente è cambiato il peso delle donne all’interno del sistema giudiziario. Eliana Di Caro passa rapidamente in rassegna alcuni momenti e passaggi significativi di questa trasformazione: il Congresso di Gardone dell’Associazione Nazionale Magistrati nel 1965 con l’affermazione di una nuova figura di magistrato impegnata ad interpretare le leggi in conformità alla Costituzione, le riforme in materia di lavoro e di diritto di famiglia degli anni Settanta con il riconoscimento della parità di diritti nei rapporti di lavoro ed in quelli di famiglia, la contestuale nascita della stagione dei c.d. “pretori d’assalto“, che «combattono gli eccessi più retrogradi e tradizionalisti espressi dalla giurisprudenza…» ( op. cit., pag. 32 ), il “sorpasso” delle magistrate sui magistrati nel 1987, quando nel concorso il numero delle donne vincitrici supera quello degli uomini (156 contro 144), la fondazione nel 1990 dell’Associazione donne magistrato italiane (Admi) ad opera di alcune giudici, tra le quali una vincitrice del primo concorso aperto alle donne, Maria Gabriella Luccioli.
Aumenta, quindi, in modo costante e progressivo la presenza delle donne all’interno della magistratura: al 6 marzo 2023 le donne magistrato sono in totale 5.321 a fronte di 4.213 uomini, pari al 56% circa del personale della magistratura; dal 2015 il numero totale di donne presenti in magistratura ha superato quello degli uomini (i dati sono riportati dall’Ufficio Statistico del Consiglio Superiore della Magistratura). Tuttavia, se si esaminano gli incarichi direttivi e semidirettivi nella magistratura, permane ancora oggi il divario tra donne e uomini a favore di questi ultimi: infatti, al 6 marzo 2023 il 71% circa delle funzioni direttive e il 54% circa delle funzioni semidirettive sono svolte da uomini (sempre secondo i dati forniti dall’Ufficio Statistico del C.S.M.). Dunque, a sessant’anni dall’accesso delle donne alla magistratura, si può tranquillamente dire che la presenza femminile è ormai consolidata e maggioritaria, ma non ancora paritaria è la distribuzione degli incarichi più ambiti (direttivi e semidirettivi) tra magistrati dell’uno e dell’altro sesso.
Altre date rilevanti nel processo di evoluzione storica della magistratura legato alla presenza femminile sono ricordate da Eliana Di Caro nel suo libro, come l’elezione della prima donna giudice, Elena Paciotti, nel Consiglio Superiore della Magistratura (1986), l’ingresso della prima donna giudice, Maria Gabriella Luccioli, nella Corte di Cassazione (1988), la nomina della prima donna, l’avvocata Fernanda Contri, a giudice della Corte costituzionale (1996), l’elezione della prima donna, la professoressa Marta Cartabia, quale presidente della Corte costituzionale (2019). Da ultimo, la giudice Margherita Cassano, nominata presidente aggiunto della Corte di Cassazione nel 2020, è diventata da marzo scorso primo presidente (o meglio prima presidente) della stessa Corte.
In conclusione, la componente femminile della magistratura è ormai parte integrante dell’organismo giudiziario, comincia ad avere un peso rilevante – anche se ancora inferiore numericamente – negli uffici di vertice, oltre che nel dibattito giuridico e giurisprudenziale originato dai provvedimenti più importanti ed innovativi. I pregiudizi e le discriminazioni appartengono al passato (anche se possono ripresentarsi in forma di episodi isolati), i problemi non piccoli che oggi la magistratura si trova ad affrontare richiedono il contributo congiunto e costruttivo di tutti i magistrati, di sesso maschile e femminile.
Sia consentita solo un’ultima considerazione personale: chi scrive è entrato in magistratura negli anni Ottanta e vi è rimasto fino alla fine del 2021, quindi ha conosciuto molte donne con cui ha lavorato insieme nei vari uffici di merito che ha ricoperto. Ebbene, queste donne magistrato erano, in grande maggioranza, preparate, equilibrate, dedite al lavoro, determinate ma propense al dialogo e al confronto (esattamente come gli uomini magistrato incontrati). Forse, a ripensarci adesso, una dote specifica e peculiare delle donne magistrato può essere ravvisata nel senso di umanità e, insieme, nella concretezza e nel senso pratico. Non è poco per rispondere alle sfide presenti e future rivolte alla magistratura.
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