Luzi, dire l’indicibile

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Mario Luzi ci ha lasciati il 28 febbraio, nella mattina più fredda e più luminosa di questo tardo inverno. Aveva 90 anni. Scendendo verso sud, dalla sua casa sul Lungarno, stamani, si vedevano le cime dei monti innevate, limpide come mai. Poi, nel pomeriggio, una breve sosta nel Salone dei Cinquecento, a condividere il saluto dei suoi concittadini, questi fiorentini così scontrosi e criticoni eppur sempre pronti a riempire Palazzo Vecchio quando si tratta di testimoniare l’attaccamento a chi ha saputo amare e capire questa indicibile città, particolare e universale, laica e religiosa, raffinata e popolana. Così è stato per La Pira, per Balducci, per Antonino Caponnetto e, adesso, per il suo più insigne poeta. La morte di un poeta è un evento che può rivelare l’essenza della poesia: tentativo di dire l’indicibile che è incarnato in una parola umana, udibile, decifrabile eppure mortale, fragile, passibile di non essere compresa. Un poeta è una parola incarnata, è manifestazione del paradosso, della tragicità e della grandezza della condizione umana, condizione limite capace dell’illimitato. Ma ogni poeta vive anche un’altra incarnazione, quella che scopre e man mano vive nel tempo che gli è dato di vivere, nello scontro e nell’incontro con le vicende storiche e culturali, ma soprattutto con lo statuto che la parola assume nel suo particolare contesto. È qui dove vivendo si produce ombra, mistero/ Per noi, per altri che ha da coglierne e a sua volta/ Ne getta il seme alle spalle, è/ Qui e non altrove che deve farsi luce. (…). (Versi d’ottobre) Dico, prego: sia grazia essere qui,/ grazia anche l’implorare a mani giunte,/ Stare a labbra serrate, ad occhi bassi/ come chi aspetta la sentenza./ Sia grazia essere qui,/ nel giusto della vita,/ nell’opera del mondo. Sia così. (Augurio) Luzi è stato in permanente contrasto col suo tempo, un contrasto non plateale né occasionale ma profondo, meditato, assunto esistenzialmente, storicamente, esteticamente. Tuttavia, come emerge dai limpidi versi citati, in tale posizione nel mondo non si sente traccia di quel risentimento dell’ego che spesso caratterizza la vo- ce dei moderni. Uomo pienamente moderno, e quindi uomo della crisi e del dubbio, in Luzi emerge una fedeltà all’interrogazione che è più profonda e più antica del moderno. Nel poeta fiorentino si risente la ricerca del senso, di una parola che sia varco all’essere e verso l’essere. Per questo, forse, la sua fede cristiana non viene mai sbandierata né usata, ma costituisce il fondo più certo della sua poetica, in quanto è da essa distinto e unito nella fedeltà alla parola. Fedeltà al mondo, fedeltà alla parola e fedeltà a quella Parola che, venuta al mondo, non è stata da esso riconosciuta. Assieme agli amici Parronchi, Bo, Bigongiari, dalle colonne di Campo di Marte e con le pubblicazioni degli anni Trenta e Quaranta, assume polemicamente e consapevolmente quella definizione di ermetismo che il Flora aveva attribuito in tono dispregiativo ai piu conosciuti Ungaretti, Montale e Quasimodo, termine poi passato in modo improprio e banalizzante nella dizione popolare. Infatti non si può immaginare niente di più lontano dei giovani dell’ermetismo fiorentino, rispetto ai nomi sopraccitati, ben più conosciuti e divulgati. La temperie culturale della poesia e della critica nata nella Firenze degli anni Quaranta, assumerà in seguito la definizione di ermetismo storico. Si tratta di poeti, critici e storici della letteratura – quasi tutti anche docenti universitari – che diverranno maestri di pensiero e di poesia per la generazione successiva. Dal Novecento poetico, soprattutto francese, ereditano la riflessione e la consapevolezza per lo stato di crisi della parola e dell’identità stessa dell’intellettuale e del poeta. Luzi incarna perfettamente la posizione etica ed estetica nella quale i compagni d viaggio si riconoscono: una poesia centrata nel tentativo di ritrovare un senso pieno alle parole, che nasce dalla scoperta della frattura tra esse e il reale, e che per questo tenta con tutte le sue possibilità di ricreare un linguaggio vergine, una ri-significazione delle cose senza per questo trapassare nel realismo, o all’opposto, nell’irrazionale: fedeltà quindi alla parola proprio nel tempo della crisi della parola stessa. La poesia di Luzi è anche per questo poesia colta, difficile e, diciamolo francamente, molto nominata ma poco letta. Le sue prime opere, secondo Gianfranco Contini, costituiscono un canzoniere denso di elementi preziosi e lontani dalla lingua quotidiana, o per letterarietà o per la natura stessa degli elementi di cui sono popolate le liriche (Atri, cedri, basalti, erme); ne emerge una lingua raffinata ed elitaria: Dove non eri quanta pace: il cielo/ Fra gli alberi estuosi raccoglieva/ La bianca offerta delle strade, un volto/ Riluceva nel buio delle fonti,/ la midolla di miele/ temperava l’angoscia dei passanti/ e la beltà brillava…. (Da Quaderno gotico) Da qui, forse, le critiche dei politicamente corretti del tempo, e il tempo era quello del realismo a tutti i costi e della poesia che poteva diventare perfino declamatoria (pensiamo a certi esiti del Quasimodo più politico). Negli anni del dopoguerra Luzi fu accusato di non essersi schierato, di non essere sufficientemente esposto. Ma la ricerca del Maestro – così lo si sentiva spesso chiamare – si trasformava profondamente, e proprio negli anni Sessanta e Settanta si ridefiniva a partire dalla necessità di una nuova modalità comunicativa: non più la lingua elitaria e preziosa ma l’onnipresenza del dialogo, dell’interrogazione. Si dirada l’endecasillabo e compare l’uso massiccio del discorso diretto, il domandare ed il rispondere, che giunge a dare ragione della propria posizione nel mondo, in una presenza al contesto prima inimmaginabile. Luzi ha attraversato quegli anni di controversie politiche ed ideologiche in un atteggiamento di ascolto (il poco detto, il molto udito) che, solo, gli bastava per assumere una posizione controcorrente, di isolamento nei confronti di tutti gli schieramenti. La stessa posizione, rovesciata, eppure simile per fedeltà alla poesia e per coerenza di pensiero, di un poeta totalmente diverso, che invece aveva deciso di gettare il proprio corpo nella lotta, ovvero Pier Paolo Pasolini. Ma le mode culturali passano e così, finita la stagione dell’impegno a tutti i costi, l’ostinata fedeltà di Luzi alla poesia, al diuturno lavoro per la parola, lo rende, ancora una volta, inattuale: per il grande vecchio della poesia, è l’ultima, straordinaria stagione, una sorta di raccolto della maturità, che unisce la sintesi estetica, religiosa ed esistenziale del Viaggio terrestre e celeste di Simone Martini (1994), Frasi e incisi di un canto salutare (1990) alle prove del teatro di parola come Hystrio, Rosales, Purgatorio, la notte lava la mente, Opus Florentinum. Unico tra gli intellettuali italiani degli ultimi anni, Luzi viene nominato senatore a vita: Il poeta ermetico e neoplatonico riceve – invece del Nobel – un riconoscimento civile e sociale. È dello scorso novembre questo evento che – adesso possiamo dirlo – spesso segna il destino dei personaggi emblematici, in una sorta di ricapitolazione della propria vicenda che prelude all’addio. Un addio che le sue parole stesse, nell’ultima poesia, ci consegnano con la sconvolgente limpidezza ed il nitore del cielo di quel mattino: Il termine, la vetta/ Di quella scoscesa serpentina/ Ecco, si approssimava,/ ormai era vicina,/ ne davano un chiaro avvertimento/ i magri rimasugli/ di una tappa pellegrina/ su alla celestiale cima./ Poco sopra/ Alla vista/ Che spazio si sarebbe aperto/ Dal culmine raggiunto…/ Immaginarlo/ Già era beatitudine/ Concessa/ Più che al suo desiderio al suo tormento./ Sì, l’immensità, la luce/ Ma quiete vera ci sarebbe stata?/ Lì avrebbe la sua impresa/ Avuto il luminoso assolvimento/ Da se stessa nella trasparente spera/ O nasceva una nuova impossibile scalata…/ Questo temeva, questo desiderava. L’ETERNO PRINCIPIANTE Intervista ad Andrea Ulivi, direttore delle Edizioni della Meridiana di Firenze. In che modo hai conosciuto Mario Luzi? Durante i primi anni di Lettere, mentre frequentavo un seminario sulla poesia del Novecento. Era il 1982, e da quell’incontro nacque un’amicizia.Al punto che Mario è divenuto un punto di riferimento importante per la mia vita prima che per la letteratura o l’editoria. Aveva una incredibile capacità di ascolto, di consiglio, di guardare e capire le persone e una grande pazienza. Ma la parola che spiega più di tutte l’uomo Luzi, l’ha detta Heleno Oliveira nella poesia che gli dedicò: la pietà. Nell’88, dopo aver fondato la rivista Clandestino assieme a Davide Rondoni, scrissi un articolo su Luzi centrato proprio su questa dimensione; della poesia come compassione, intendendo per compassione passione con il mondo, che deriva dal desiderio di entrare in contatto diretto con la realtà. Per cui ad un certo punto, il mondo non può più essere guardato Dalla barca, come nelle sue prime poesie, adesso ci si immerge nel magma della vita, nell’arrovellamento, nel suo continuo mutare, un insegnamento colto da Teilhard de Chardin. Una svolta della sua vita e della sua poetica che ha significato un diverso rapporto con la realtà, segnato, appunto dalla pietas. Era una esigenza esistenziale. Quali sono stati secondo te altri momenti di svolta nella poetica di Luzi? Un momento di svolta è stata la nascita del teatro; la parola chiedeva ad un certo punto di essere detta. Non è teatro nel senso drammaturgico del termine, trovi pochi accorgimenti teatrali, è poesia, è teatro di parola. Il primo testo teatrale è il libro di Ipazia, del 1978, nato come poesia e trasformato in teatro. Poi sono arrivate anche le committenze, dalla città di Palermo per il Corale di Santa Rosalia, una sorta di auto da fé, di teatro sacro. Una esperienza inaspettata e fortissima è stata la richiesta da parte del papa di scrivere i testi delle Viae Crucis. Recentemente, con le Edizioni della Meridiana, abbiamo pubblicato l’ultimo suo testo poetico, quello sulla vicenda di Don Puglisi. In che cosa consiste, secondo te, il magistero di Luzi per la poesia del secondo Novecento? Io direi l’attitudine alla ricerca. Prendi Bigongiari, l’amico di Luzi fin dagli anni di Campo di Marte: Bigongiari è sempre stato fedele alla poetica iniziale dell’ermetismo. In Luzi prevale invece la fedeltà alla ricerca, il volere entrare nel mondo delle cose, e questo lo ha portato ad una continua evoluzione, ad un continuo cambiamento: secondo Luzi la parola è come il fuoco, non può stare fermo, cambia sempre. Luzi non ha avuto dei picchi particolari, ma ha sempre mantenuto un livello alto pur nella trasformazione. La dottrina dell’eterno principiante, il titolo di uno degli ultimi libri, non potrebbe essere più esplicito riguardo questa attitudine!.

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