L’utero in affitto e il bene primario dei bambini

Dietro il dibattito sulla trascrizione all’anagrafe dei bambini nati all’estero da coppie omogenitoriali, la vera questione in gioco è l’utero in affitto, una pratica vietata in Italia che mortifica la donna e il bambino, rendendolo una merce a disposizione di chi può permettersi questa compravendita.

Ormai sono diversi giorni che le cronache riportano notizie e commenti sulla decisione del prefetto di Milano di sospendere la registrazione automatica all’anagrafe dei bambini nati all’estero a nome di entrambi i componenti di una coppia omogenitoriale.

L’indicazione attuale è quella seguita nella maggior parte di Comuni in tutta Italia: registrare il bambino solo a nome del genitore biologico, assicurandogli così tutte le garanzie e i diritti, ma lasciando per l’altro la possibilità di poter richiedere l’adozione speciale, un procedimento sicuramente più lungo, ma che consente al giudice di valutare le situazioni nella loro specificità.

Le manifestazioni di dissenso, dal sindaco Sala alla piazza arcobaleno, rivendicano la difesa dei diritti dei bambini che in questa situazione sono i soggetti più fragili, ma che dovrebbero essere i veri protagonisti, coloro per i quali si rivendica l’affermazione del loro bene.

Purtroppo la questione è tutt’altro che semplice e trasparente e va ad insistere su un tema eticamente sensibile di cui non si può non tenere conto.

Ormai da diversi anni, alcune coppie (i numeri reali sono difficili da ricavare, ma si parla di un centinaio all’anno circa) per il 70% eterosessuali e per il restante 30% omosessuali, si recano all’estero per ottenere un figlio attraverso la pratica dell’utero in affitto.

A volte i gameti, o almeno uno dei due gameti appartiene alla coppia, altre volte si ricorre a dei donatori; attraverso questi si ottengono degli embrioni che vengono poi impiantati nell’utero di una donna “affittato” per il tempo della gravidanza. Un figlio commissionato ad una donna (prevalentemente povera che dà il suo consenso per contribuire alle economie familiari) utilizzata come “contenitore” che deve sottostare a stringenti accordi contrattuali che spesso prevedono l’aborto obbligatorio in caso di malformazioni del bambino o gravidanze gemellari indesiderate.

Dopo il parto il bambino (il prodotto commissionato) viene consegnato ai genitori intenzionali (i committenti) senza che possa più avere contatti con colei con la quale ha stretto un legame di sangue e vita e che lo ha nutrito e protetto durante i primi 9 mesi della sua esistenza.

Basterà l’amore a far crescere in modo armonico ed equilibrato questo figlio voluto per soddisfare un bisogno di paternità/maternità e di certo non accolto gratuitamente per il fatto stesso che è proprio lui e non chiunque altro?

La legislazione italiana attraverso la legge 40/2004 vieta l’utero in affitto, e il ricorso alla procreazione assistita per single e per coppie dello stesso sesso; la trascrizione automatica sull’atto di nascita del nome del genitore biologico e di quello del genitore intenzionale è un modo per aggirare questo divieto.

Dall’Europa arrivano pressioni: si è richiesto agli Stati membri di adottare il “Certificato europeo di filiazione” per far sì che la filiazione accertata in uno Stato membro sia automaticamente riconosciuta in tutti gli altri. Questo fatto non può essere imposto agli Stati che, su questo tema così importante hanno regolamentazioni diverse strettamente legate alla propria cultura e tradizione giuridica. Apparentemente tale richiesta sembrerebbe affermare una cosa “naturale”, in realtà cerca di esportare una concezione di filiazione indipendente dalla biologia, ma anche dalle norme che regolano l’adozione normale. Il Governo italiano ha recentemente votato no al recepimento di questo certificato.

In una linea giurisprudenziale simile, la Corte di Cassazione a camere riunite nella sua sentenza del 30 dicembre scorso ha deliberato che la cosiddetta gestazione per altri è una “pratica degradante” e la trascrizione automatica all’anagrafe del bambino nato all’estero potrebbe avallare tale pratica.

Recentemente a Casablanca 100 studiosi di 75 Paesi nel mondo si sono riuniti per scrivere un appello agli Stati per la messa al bando della pratica dell’utero in affitto, considerandola un reato grave, e lanciando una campagna internazionale come fu la campagna per la messa la Bando delle mine antiuomo, raggiunta nel 1997 con la partecipazione di moltissimi Stati in tutto il mondo.

In questo momento solo 20 Stati su 212 hanno legalizzato l’utero in affitto con regole più o meno stringenti. Una mobilitazione per il suo divieto internazionale, quindi, potrebbe essere un obiettivo raggiungibile.

Il Governo vuole aderire a questa proposta che vede in campo, a livello internazionale, movimenti femministi, attiviste e attivisti Lgbt, altri stati come la Francia. È una questione che chiama in causa anche lo schieramento di centro sinistra che in Italia si trova all’opposizione.

Il dibattito merita di essere affrontato apertamente. Esiste una tendenza che rischia di rimanere schiacciata su una deriva di sterile difesa dei diritti individuali, mentre si tratta di misurarsi con una base antropologica comune: ogni uomo deve essere considerato come un fine e mai come un mezzo per il raggiungimento di qualsivoglia altra finalità.

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