Siamo nel rione Sant’Eustachio, a pochi passi da piazza Navona, per visitare Sant’Agostino in Campo Marzio, in omaggio a papa Leone. La basilica è, infatti, officiata dagli agostiniani i quali vi hanno la loro casa madre. Qui inoltre si custodiscono le reliquie di Monica, la madre di Agostino morta ad Ostia mentre col figlio ormai convertito era in attesa di imbarcarsi per l’Africa dopo il soggiorno a Milano e in Brianza. Tumulata poco fuori città, lungo il primo tratto della via Ostiense, la sua tomba venne successivamente inglobata in una “basilichetta” dedicata alla martire Sant’Aurea. Le spoglie di Monica vi rimasero per diversi secoli fino al 9 aprile 1430, data della loro traslazione a Roma nell’attuale sede: l’ultimo viaggio di una madre che non aveva esitato ad affrontare le fatiche e i rischi di una traversata marittima per essere vicina a quel figlio in piena crisi, ancora irretito dai lacci dell’eresia manichea. Più movimentato ancora il destino delle spoglie di Agostino, morto nel 430 in una Ippona assediata dai Vandali: per evitare profanazioni esse vennero trasferite in Sardegna, finché nel 725 furono da re Liutprando acquistate a caro prezzo dai saraceni, per finalmente trovare riposo a Pavia nella magnifica basilica di San Pietro in Ciel d’Oro.
Lontani per sepoltura, ma di nuovo sullo stesso suolo italico, madre e figlio sono ora associati nella stupenda basilica rinascimentale oggetto di questa tappa giubilare. Anche se qualche visitatore frettoloso sembra aver occhi soltanto per la Madonna dei pellegrini di Caravaggio, il Profeta Isaia di Raffaello e la Madonna del parto di Jacopo Sansovino, per citare soltanto tre fra i capolavori qui ospitati, noi, senza tralasciare questi, ci dedicheremo ad ammirare anche gli altri tesori, opera di sommi artisti dell’età barocca: in particolare quelli dove Agostino e Monica appaiono nella gloria celeste con altri santi o in episodi della loro vita terrena. Penso soprattutto alla pala d’altare del Guercino con i santi Agostino, Giovanni Evangelista e Girolamo, al ciclo pittorico di Giovanni Lanfranco, di cui fa parte anche la celebre scena di Agostino anziano su una spiaggia, in dialogo con un bambino intento a travasare tutta l’acqua del mare dentro una buca nella sabbia. Alla replica del santo che ciò era impossibile, il bambino – secondo la leggenda – gli rinfacciò lo stesso errore per la sua pretesa di spiegare il mistero trinitario.
Irrinunciabile anche la cappella affrescata da Giovan Battista Rossi, dove in un’urna di marmo verde riposano i resti mortali di santa Monica. Qui la pala d’altare di Giovanni Gottardi, che rappresenta la Madonna e il Bambino Gesù mentre donano una cintura al vescovo di Ippona e alla madre, si rifà ad una tradizione secondo cui Monica, rimasta vedova del marito Patrizio, espresse alla Vergine il desiderio di vestire come lei dopo la morte di san Giuseppe. In una visione le furono mostrati un abito scuro penitenziale e una cintura di cuoio, con la promessa che quanti si fossero così vestiti avrebbero ricevuto protezione e consolazione. Di qui il titolo di Vergine della Consolazione o della Cintola. Ancora oggi, gli agostiniani indossano una tunica nera stretta ai fianchi da una cintura.
In realtà tutto ciò che sappiamo della madre ce lo ha tramandato il figlio soprattutto nelle Confessioni e nei Dialoghi, opere in cui la descrive come donna istruita, di intelligenza vivace, sensibile ma dal carattere deciso, cristiana dalla fede solida, assidua in chiesa e nell’elemosina, esempio di sobrietà, prudenza e saggezza, seminatrice di pace tra amiche e conoscenti, aliena da maldicenze e mormorazioni. Culminando in questo elogio: «Mia madre mi ha generato due volte, la prima nella carne a questa vita temporale, la seconda mi ha generato col cuore alla vita eterna». La Chiesa cattolica celebra la memoria di lei il 27 agosto, il giorno antecedente quella di Agostino.
Prima di lasciare Sant’Agostino in Campo Marzio, non posso non ricordare che questa basilica è inserita nell’elenco delle chiese più frequentate da Chiara Lubich durante il periodo 1948-1965, anni in cui la fondatrice dei Focolari soggiornò nella Città Eterna: un omaggio a quel ricercatore appassionato della verità con il quale lei avvertiva una particolare consonanza fin dagli anni di studio alle magistrali, quando le capitò di contestare il suo insegnante di filosofia e pedagogia proprio riguardo alla errata visione che lui aveva del grande padre e dottore della Chiesa.
Questo rapporto con Agostino emerge anche da una lettera del 1943 che Chiara indirizzò ad un gruppo di ragazze, dove fra l’altro si legge: «Che la vostra giovinezza non scappi e fra i singhiozzi di una vita fallita non vi tocchi dire con sant’Agostino: “Tardi t’ho amato!”». E anche negli anni successivi più volte, specialmente in occasione di convegni spirituali, amò ricordare dal commento alla prima lettera di Giovanni, un altro celebre detto del vescovo di Ippona: «Ama e fa’ ciò che vuoi. Se taci, taci per amore; se parli, parla per amore; se correggi, correggi per amore; se perdoni, perdona per amore. Abbi sempre in fondo al cuore la radice dell’amore; da questa radice non possono che sorgere opere buone».