L’ultimo viaggio della Yamato

Negli abissi dell’Oceano Pacifico, al largo dell’isola di Okinawa, giace un relitto famoso. Sul tragico episodio di guerra avvenuto 79 anni or sono, uno dei superstiti ha scritto un classico della letteratura di guerra, nel quale si fondono azione e meditazione
Un'immagine della Yamato

Immaginiamo di trasportarci sull’Oceano Pacifico, a circa 370 miglia dall’isola giapponese di Okinawa, alle coordinate 30° 22’ 0’’ N, 128° 4’ 0’’ E. Sotto di noi, a circa 300 metri di profondità, giace in due tronconi il relitto della più grande e potente nave da guerra del Secondo conflitto mondiale, la supercorazzata Yamato, orgoglio della marina imperiale giapponese.

Considerata inaffondabile, stazzava a vuoto più di 65 mila tonnellate e col suo armamento di 9 cannoni da 460 mm, 12 da 155, 12 da 127, e con un armamento antiaereo impressionante composto da 24 cannoni da 24 mm, 8 da 13 e 146 mitragliere binate, non aveva rivali al mondo.

Come avvenne che questo colosso ritenuto invincibile venne invece domato, sì che giace ora sui fondali del Pacifico? In realtà era già previsto che sarebbe stata suicida la missione per la quale la Yamato era salpata il 1° aprile 1945 dal cantiere di Kure, carica di munizioni fino all’estremo limite, ma con nei serbatoi combustibile per la sola andata. L’Operazione Ten-Go, scattata dopo l’invasione dell’isola di Okinawa da parte della flotta americana composta di circa 1.500 navi, prevedeva infatti che la Yamato avrebbe attirato le portaerei Usa in modo da tenere occupati gli aerei nemici il più a lungo possibile; e ciò per favorire l’attacco dei kamikaze alla squadra americana. Qualora fosse riuscita a raggiungere Okinawa, la supercorazzata avrebbe dovuto arenarsi tra Hagushi e Yontan per combattere fino all’ultimo in appoggio ai difensori dell’isola.

Nel pomeriggio del 6 aprile, scortata dall’incrociatore leggero Yahagi e da otto cacciatorpedinieri, la Yamato lasciava il porto di Tokuyama, dirigendosi verso il suo destino, ma all’alba del giorno seguente il convoglio veniva avvistato all’uscita del Mare interno del Giappone da due sottomarini Usa e da un ricognitore della portaerei Essex.

Fu così che, verso mezzogiorno, quasi 400 aerei della Task Force 58, in ondate successive, attaccarono la squadra giapponese con bombe e siluri. Colpita da questo uragano di fuoco, crivellata al solo fianco sinistro perché si rovesciasse, dopo una strenua quanto inutile difesa la Yamato affondò con rapidità impressionante anche a causa del distacco delle tre torri principali, scardinate dal ponte dal loro stesso enorme peso. Mentre si inabissava, il colpo di grazia le venne dall’esplosione dei depositi di munizioni. Perivano con essa circa 2.375 uomini; solo 269 i sopravvissuti. Delle navi della scorta, quattro furono affondate e cinque gravemente danneggiate e costrette a rientrare in Giappone.

Di questa tragica sortita finale che segnò la fine della marina imperiale giapponese esiste una testimonianza, considerata una delle grandi opere letterarie nate dalla guerra nel Pacifico. Scritto a metà ottobre del 1945 da Yoshida Mitsuru, uno dei pochissimi superstiti dall’affondamento, Addio ciliegi in fiore costituisce un piccolo classico in Giappone ed è stato pubblicato dodici anni fa in traduzione italiana per i tipi della Piemme. L’allora giovane guardiamarina concepì questo memoriale come «un requiem per i morti – commenta Eto Jun –, come una rappresentazione del teatro No in cui gli sventurati eroi Heike vengono appassionatamente evocati dalla terra dell’oblio e riproducono la scena della battaglia cui presero parte in modo così valoroso». Quanto al linguaggio, è quello letterario bungotai, ancora in uso prima del 1945. Due le motivazioni addotte dall’autore per tale scelta: «La prima è che è difficile esprimere la gravità e l’emozione di un’esperienza estrema con la lingua di tutti i giorni. La seconda è che quando sei entrato nel vivo della battaglia e tenti di descriverla, il ritmo del “combattere” richiede probabilmente il tono che è caratteristico di questo linguaggio».

Emozionanti le pagine dedicate alla battaglia disperata e all’affondamento della corazzata. Malgrado ciò, «il tema principale del libro non sono tanto le bombe e i proiettili quanto la natura umana, non tanto la morte quanto la vita». E neppure si rileva astio contro il “nemico”. Dominano, invece, il senso del dovere e della lealtà, i tratti di umanità, i ricordi, le speranze, i gesti di altruismo, i volti spesso infantili dei compagni votati come lui alla morte.

Certi squarci di poesia rimangono impressi. Come quando, prima ancora della partenza per l’ultimo viaggio, durante una pausa delle esercitazioni, un marinaio di guardia della Yamato segnala una inaspettata, perché precoce, fioritura di ciliegi. Eccitati, i marinai si precipitano verso la murata. «Sgomitando per essere i primi della fila, afferriamo il binocolo, cercando di imprimerci nella retina l’immagine dei delicati boccioli, petalo per petalo. Radiosi e magnifici nella visuale sfuocata del binocolo, ci incantano con il loro fremito incessante. Fiori di ciliegio, oh fiori di ciliegio del Giappone: addio!».

Col rimorso dei sopravvissuti, Yoshida Mitsuru tornò alla vita, chiedendosi come mai era toccato proprio a lui. «Ciò che mi ha diviso da tanti compagni di bordo e mi ha riportato ancora una volta alla luce del giorno, che cos’era? Basta con i pensieri! La morte non ha alcun rapporto con me. Quando l’avevo vicina, paradossalmente si ritraeva; solo quando si è vissuta la propria vita in pace e tranquillità si può affrontare la morte faccia a faccia. Vivere una vita retta e sincera: non c’è altro modo per avere un contatto diretto con la morte. Fa’ di te stesso un recipiente vuoto. Fa’ di questo momento un punto di svolta verso una vita di rettitudine e generosità».

Alla Yamato, orgoglio della marina imperiale giapponese, e ai suoi oltre tremila sventurati compagni affondati con essa, Yoshiro Mitsuru ha elevato un canto con un testo asciutto e al tempo stesso poetico, che ci aiuta a penetrare nell’anima di questo popolo e al tempo stesso può ricordarci Pilota di guerra di Antoine de Saint-Exupéry perché, sebbene questo non tratti di una battaglia navale, combina allo stesso modo azione e meditazione.

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons