L’ultimo spenga la luce

Si può ancora scommettere sull’università pubblica italiana? Qulche dato su cui riflettere.
Politecnico di Milano

Dei motti risuonati sui tetti e i monumenti delle città italiane, è stato quello lasciato appeso all’aeroporto di Bari da alcuni (cosiddetti) cervelli in fuga a colpirmi particolarmente. L’ultimo spenga la luce, recita. È il racconto sintetico e amaro di una generazione di ricercatori preparati e competitivi, costretti ad emigrare nelle università di mezzo mondo. Perché in Italia sono sempre meno i concorsi, perché si sono ridotti drasticamente i finanziamenti all’università, perché le baronie in certe università sono endemiche almeno come la malaria un tempo.

 

L’iter del decreto Gelmini è rimandato a dopo la fiducia, ma da nord a sud, nelle piccole come nelle grandi città, la protesta delle università prosegue senza sosta; a volte con accenti creativi e positivi, altre volte con risvolti accesi e violenti. La forte visibilità di queste proteste rischia però di mettere in ombra le ragioni profonde del travaglio del sistema universitario. Altri numeri non fanno notizia. Ne ho scelti quattro che ci aiutano a interrogarci.

 

I numeri che raccontano l’unità delle componenti universitarie.

684 docenti del Politecnico di Milano, ad esempio, tra professori ordinari, professori associati, ricercatori e personale amministrativo, insieme al rettore, hanno rinunciato a una parte del proprio stipendio, per acquistare alcune pagine di quotidiani nazionali ed esprimere una posizione condivisa e critica nel merito della riforma. L’unità e la coesione dell’ateneo, in quanto libera istituzione di ricerca e di insegnamento, è stata anteposta ad ogni divisione.

 

I numeri che riscattano la posizione delle università italiane su scala mondiale.

Le critiche circolanti sul sistema universitario italiano spesso non sono né generose né veritiere. Tra gli otto sistemi di valutazione attualmente prodotti a livello mondiale esiste una notevole convergenza di risultati: se si considerano quelli basati sulla qualità della produzione scientifica, l’Italia mantiene 29 atenei tra i primi 500 nel 2010, collocandosi al quarto posto a livello mondiale dopo Stati Uniti, Germania e Gran Bretagna e migliorando la propria posizione rispetto al 2007 (Higher education evaluation and accreditation council of Taiwan).

 

I numeri che quantificano l’entità dei tagli all’università.

Il finanziamento all’università pubblica ha subito una contrazione senza precedenti: a partire dalla legge 133/08 che ha previsto tagli per quasi 1,5 miliari di euro al Fondo di finanziamento ordinario delle università da realizzarsi in 5 anni (2009-2013), confermati dalla manovra economica del 2009 e dal congelamento degli scatti stipendiali per docenti e tecnici-amministrativi. La scarsità di risorse, come si può immaginare, non ha portato a virtuosismi, ma spesso ha accentuato conflitti e competizioni, favorendo cooptazioni e favoritismi.

 

I numeri che descrivono un’università che invecchia e lascia fuori i più giovani.

Sempre la legge 133 ha stabilito un dimezzamento del turn over dei docenti per il triennio 2009-2011, stabilendo che le assunzioni di personale a tempo indeterminato possano avvenire solo nel limite del 20 per cento delle unità cessate nell’anno precedente. Il che significa che se vanno in pensione cinque professori ordinari, l’università ne può assumere al loro posto uno solo, lasciando senza possibilità di avanzamento di carriera un’intera giovane generazione di studiosi.

 

Quale università descrivono questi dati? Per quanti anni riusciranno a sopravvivere senza inaridirsi le sue oasi di eccellenza? Che futuro potrà avere un Paese che non investe sulla ricerca e sui giovani? Me lo domando ogni mattina – mentre faccio lezione o mi dedico all’attività di ricerca o scrivo un articolo – ricordandomi quanto sia importante lasciare accese quelle luci.

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