Luciano, la sua notte

Siamo su una corriera che si dirige verso una località di montagna, io mi chiamo Luciano e ho sedici anni. Sono con i miei amici del coro. Stiamo andando a prepararci per un concerto. È una splendida giornata, il cielo è sereno, il sole penetra dai finestrini con forza. È proprio una splendida giornata. Sulla corriera c’è il solito fracasso: ragazzi che cantano, altri che ridono e fanno battute alle ragazze, altri che si baciano di nascosto, altri che leggono musica. Io in genere sto nel gruppo che fa più rumore. Oggi però non ne ho voglia. Sono stanco, ho dormito poco stanotte. Appoggio la testa al sedile, guardo fuori e il riflesso del sole mi costringe a chiudere gli occhi, sospiro pensando a stanotte. Stanotte…. È l’inizio del diario-confessione in cui Luciano Saltori racconta il suo viaggio dentro la droga, e la sua disperata lotta per uscirne fuori. Quella notte, dunque, un ragazzo di sedici anni, appartenente ad una buona famiglia, che frequentava con profitto la scuola, amava la musica ed era ben inserito nei gruppi giovanili di Trento, la sua città, aveva fatto il primo incontro con la droga, non particolarmente entusiasmante, nel gabinetto di un oratorio. Per caso. Per curiosità. Per non doversi tirare indietro con gli amici. Sua madre Lucia me ne ha dato in dono una copia. La signora Saltori presta da vent’anni servizio volontario presso il Cts (Centro trentino di solidarietà) che si occupa dei giovani con dipendenze da sostanze tossiche secondo il programma del Progetto Uomo di don Mario Picchi. Anzi, è stata tra i soci fondatori del Centro. Erano i primi anni Ottanta – racconta – e Luciano, il più giovane dei miei tre figli, ancora adolescente, aveva preso una strada che l’aveva portato quasi inavvertitamente alla droga. Fu in quel momento difficile che conobbi il movimento Cursillos di Cristianità. La loro forte testimonianza mi fu di grande sollievo. Furono proprio loro a portare a Trento il Progetto Uomo di don Picchi. Così, davanti al notaio, nacque il Cts. Ma allora non era facile dar vita ad un progetto così nuovo. Mancavano i fondi, e noi soci fondatori, tassandoci di una somma mensile, riuscimmo ad avviare l’attività. Mio figlio fu tra i primi ad entrarvi e ne uscì dopo due anni, rinato. Purtroppo, scoprì di essere stato contagiato dal virus dell’Hiv. Nel 1990 stava bene, lavorava, faceva sport. Sembrava che la vita in lui avesse vinto.Ma otto anni più tardi, tra alti e bassi, cominciò a deperire. Nel suo intimo sperava di vincere anche questa battaglia, ma fu inutile. Se ne andò il 27 gennaio del 2000. Nel 1995, Luciano aveva fatto stampare il racconto della sua vicenda di droga per diffonderlo tra i ragazzi del centro e i giovani della sua città. Voleva anche lui dare il suo contributo volontario al Cts. Non ne ebbe il tempo. Ma lasciò la testimonianza preziosa della sua esperienza. Quasi una parabola a ritroso della ricerca paradossale del senso vero della vita, della morte, della sofferenza. Anche quando la si vuole negare, anestetizzare. Sicché l’esperienza di Luciano assume, in qualche modo, un significato universale ed incoraggiante: qualunque sia il fosso, il baratro, nel quale siamo precipitati e nel quale ci dibattiamo, l’accettazione della caduta, delle ferite, del fallimento è la premessa per la risalita. Poi, quando verrà il momento Tra le pagine più lucide, drammatiche e avvincenti del diario di Luciano, troviamo quelle che egli indirizza al virus. Ciao, Virus…Voglio parlare con te. A te che vivi con me, nel mio corpo, nei miei pensieri, nei miei rapporti, nel mio sangue. A te che ti sei insediato lentamente nelle mie cellule, a te che hai messo a dura prova il mio sistema immunitario. A te che mi stai divorando vivo.(…) In questi anni ti ho solo odiato, ti ho rifiutato, ho fatto finta di non sentirti, di non ascoltarti. Ho sempre cercato e creduto che ciò mi avrebbe salvato, mi avrebbe fatto sentire più sano, più normale,con un futuro davanti. Ho sempre cercato di sminuirti, di svalutarti, di buttarti in un angolo della mia esistenza. Ora in questo momento sento di avere sbagliato. Ho ripreso a combatterti, in modo diverso, però. Mi sono accorto che rifiutandoti, negandoti, ho solo fatto il tuo gioco. Mi sono reso tuo complice, credevo di combatterti e invece ti consegnavo in continuazione armi, strumenti per il tuo progetto. Ti svalutavo, però tu c’eri, ti rifiutavo, ma tu eri e sei parte di me, ti buttavo in un angolo ed io con te. Io ti detesto, Virus caro, però l’odio è un sentimento che non posso permettermi. Mi stanca, mi esaurisce, mi deprime. E poi, poi chi io odio veramente? Forse te, Virus malefico? Odio me? Odio la mia stupidità, la mia superficialità, il mio raccoglierti per strada? Il mio non pensare? Io non esistevo a quel tempo, tu non esistevi ancora. La mia mente era piena di fantasmi e di pazzie. Non vi erano limiti e confini nella mia vita. Tutto era lecito, tutto andava bene. Odio forse i ricercatori, i medici, i grandi della medicina che non stanno facendo abbastanza, che non vogliono o non possono fare abbastanza? No, la medicina, i medici, almeno quelli che io ho conosciuto, si danno un gran da fare. E poi non credo che sia questo il problema. L’odio non serve proprio a niente. L’odio serve a distruggersi, ad impoverirsi, a scomparire. Posso invece fare una cosa, una cosa molto grande, una cosa che a volte mi sembra un paradosso. Io posso cercare di dare un significato alla tua invadenza. Generi una malattia molto strana, sai? Stravolgi completamente la vita delle persone, costringi queste ad iniziare una rivoluzione dentro di sé e fuori di sé. Le persone con te cambiano. In questo ultimo periodo mi sono avvicinato a cose, pensieri e riflessioni, a emozioni e stati d’animo che mai avrei creduto di poter un giorno fare o sentire. Delle volte mi scopro molto più aperto adesso. La paura della morte ha fatto emergere molti aspetti miei che non credevo di avere. Spesso mi chiedo: che cosa è la vita? Dio mio, dimmi che cosa è questa cosa che mi pulsa dentro, che amo come non mai, a cui tengo così tanto? Che cos’è? Dimmi, Dio, virus, mamma, amore, ditemi. Io sto vivendo? È questa la vita? Molte volte penso che sto vivendo in una anticamera. Che tutto questo è solo preparazione, solo riflessione. È solo uno strano, fantastico, doloroso allenamento. È solo un momento. Poi, quando la notte ci avvolgerà, sarà la vita. Questo palcoscenico allora cambierà, e non sarà più così importante ciò che io lascerò. Non sarà importante perché troverò veramente me stesso. Comunque il mio cammino, la mia rivoluzione, è appena agli inizi. Sto cominciando a prepararmi, sto iniziando a capire perché tu sei entrato in me, sei entrato nel mio corpo, nella mia mente, nella mia vita. Ho costruito lentamente una fessura nella quale tu ti sei inserito senza fatica. Ti ho aperto la mia porta. Tutta l’energia che ho bruciato per annientarmi, per chiudermi, per non esprimermi, è servita per crearti un varco, un piccolo e sottile varco nel quale tu ti sei intrufolato invadendomi. Ora, io sto cercando a fatica quel varco, quella fessura, quello spiraglio. Lo sto cercando per poterti ributtare fuori dal mio corpo e dalla mia vita. Non riuscirò a portare a termine questo mio intento. Non credo. Però la ricerca, l’attenzione, l’impegno, la costanza, la fiducia, mi aiuteranno a vivere con pienezza, a vivere fino in fondo. Ad amare ed essere amato, a piangere e ridere, riuscire e perdere. Ad abbracciare la mia giornata, il sole, i prati in fiore, le nuvole, il mare e gli spazi infiniti. Non riuscirò comunque a s config ger t i , però voglio riuscire a vedere molte albe e molti tramonti e a continuare a stupirmi per questi. E poi, poi quando verrà il mio momento, vorrei tanto abbracciare con lo sguardo il mio campo, e vederlo pulito, libero da erbacce, con la terra pronta ad accogliere, con le viti potate e legate. Vorrei controllare che il fuoco sia spento del tutto, che le sementi e le erbacce ormai siano cenere. Vorrei incamminarmi verso casa, sospirando di piacere e di soddisfazione. Vorrei entrare nella casa e sentire il caldo che mi accoglie. Vorrei guardare fuori dalla finestra e vedere il giorno che finisce. Vorrei vedere la notte, aspettare con amore la mia notte.

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