Love jihad: una controversia dolorosa per tutti

Un atteggiamento sociale e giuridico che, nel nome di una ideologia nata un secolo fa, l’hindutva, si oppone ai valori e delle tradizioni che le religioni dell’India hanno testimoniato per secoli, accogliendo gruppi sociali e religiosi di ogni tipo in uno spirito di pluralismo costruttivo. I matrimoni tra persone di religione differente vengono visti dal governo centrale come una modalità di conversione coatta che gli uomnini mussulmani attuano contro donne di altri credo
I partecipanti tengono cartelli che denunciano una legislazione recentemente approvata nello stato più popoloso del paese dell'Uttar Pradesh, durante una protesta a Bengaluru, in India, martedì 1 dicembre 2020. (AP Photo/Aijaz Rahi)

Love jihad – jihad dell’amore – un binomio di conio recente che rappresenta uno dei contenziosi più complessi ed intriganti della vita socio-politica con riflessi in ambito giudiziario dell’India di oggi. Si tratta della sintesi di due nodi essenziali nelle molteplici e complesse tradizioni millenarie e trascorsi storici del sub-continente indiano, dove la stragrande maggioranza dei matrimoni è ancora combinata da accordi fra le famiglie dello stesso gruppo socio-religioso, e dove, contemporaneamente, sta crescendo sempre più l’ideologia dell’Hindutva, di cui abbiamo spesso parlato su cittanuova.it, con riferimento allo stato degli indù a scapito delle minoranze.

Il neologismo love jihad ha visto la luce nel sud dell’India, dove con una certa frequenza, già nei decenni scorsi, gruppi di ragazze cambiavano religione a causa di matrimoni al di fuori della rispettiva religione. Inizialmente, nei primi anni del decennio scorso, il love jihad si riferiva a diversi gruppi socio-religiosi – in particolare ai cristiani – vittime di matrimoni misti fra ragazze cattoliche e ragazzi di fede islamica. Sempre più il fenomeno ha preso la connotazione di una strategia da parte di gruppi di musulmani per favorire matrimoni fra giovani di quella religione con ragazze di altre tradizioni che si sarebbero convertite poi all’islam per via delle nozze.

Nel 2014 l’allora Chief Minister dello Stato del Kerala, nel sud dell’India, aveva presentato una mozione nel parlamento regionale per evidenziare come si parlasse di circa duemilacinquecento ragazze che erano state costrette a contrarre l’unione matrimoniale con giovani musulmani, lasciando la loro tradizione indù. Tuttavia, aveva precisato il politico keralese, non esisteva alcuna evidenza chiara che le giovani fossero state costrette a fare questo passo. La questione di questi matrimoni, secondo alcuni forzati e secondo altri liberi ma al di fuori della tradizione locale, ha continuato ad essere latente nella vita sociale in diverse parti dell’India.

Negli ultimi tempi il love jihad è tornato a far parlare di sé anche perché, senza dubbio, fomentato dalla propaganda dell’Hindutva che non perde occasione per insistere sulla difesa dell’identità indù soprattutto a fronte della presenza musulmana. Originariamente, infatti, la questione era aperta ad un disagio da parte di cristiani, sikhs e indù che lamentavano i casi di cui si è appena accennato. Insieme ad altre misure prese in questi anni chiaramente a sfavore della minoranza musulmana – assai nutrita in quanto arriva a circa 160 milioni di persone – l’attuale governo Modi ha appoggiato nemmeno troppo velatamente la decisione di quattro stati del centro nord dell’India – Uttar Pradesh, Madhya Pradesh, Haryana – e di uno del sud – Karnataka – di approvare leggi locali contro conversioni coatte per mezzo di matrimoni.

La questione delle conversioni nel Paese asiatico è da sempre un nodo particolarmente delicato ed il governo è sempre più attento all’atteggiamento che assumono musulmani e cristiani. Entrambe le religioni vengono caratterizzate come impegnate in processi di proselitismo. Per questo motivo, e da tempo, alcuni stati del Paese hanno fatto passi concreti per l’approvazione di misure legali anti-conversione con pene anche consistenti – a partire da dieci anni di prigione – per chi trasgredisce le norme.

In particolare lo stato dell’ Uttar Pradesh, il più popoloso dell’India, ma anche il più tipicamente indù. Varanasi, l’antica Benares, città santa delle religioni del sanathana dharma, che si trova al suo interno, ha emesso norme precise su quelle che ha definite come ‘conversioni religiose contro la legge’. Fra queste, le conversioni, soprattutto se non esclusivamente all’islam, sono praticamente vietate ed i matrimoni fra un giovane musulmano ed una ragazza indù che si è convertita alla religione del marito, vengono considerati nulli se si riesce a dimostrare che alla base dell’unione matrimoniale ci fosse l’intenzione di costringere la ragazza a cambiare la propria religione. Il disegno di legge passato in Uttar Pradesh è diventato modello di attuazione per simili misure da parte di stati controllati dal partito del BJP guidato da Surendra Modi, che guida il governo centrale.

Il primo ministro indiano Narendra Modi, a destra, parla con il primo ministro dello stato dell’Uttar Pradesh Yogi Adityanath. (AP Photo/Altaf Qadri, File)

La questione non è solo socio-religiosa, ma sta diventando anche un caso giuridico. Infatti, nel corso degli anni, la Supreme Court di Delhi, come pure la Allahabad High Court, hanno affermato che nessuno, né singoli, né tanto meno famiglie o lo Stato stesso, possono interferire nella decisione presa da due adulti consenzienti che, a prescindere dalle rispettive fedi, hanno deciso di contrarre un regolare matrimonio. Tale sentenza contraddice chiaramente la nuova legislazione che vorrebbe invece dichiarare come ‘illegale’ un’unione coniugale dove una donna della comunità maggioritaria (indù) si unisce in matrimonio con un giovane della maggiore comunità di minoranza (musulmana). La Delhi High Court, sollecitata dalla denuncia della famiglia di una giovane ventenne, è arrivata ad affermare che una donna che ha compiuto la maggiore età è libera di vivere dove desidera e con chi ritiene opportuno.

A fronte di queste tensioni socio-religiose in ambito legale, si sono aperti anche contenziosi fra diversi Stati dell’Unione Indiana. A fronte di quelli citati, nello stato del Rajasthan, guidato da un governo composto da partiti che si trovano all’opposizione del governo centrale, il capo del governo locale ha recentemente affermato che la terminologia di love jihad è una sintesi coniata per dividere il Paese e creare una instabilità sociale fra comunità religiose.

Il politico ha chiarito che la Costituzione indiana garantisce la libertà personale e che il matrimonio rappresenta una questione di scelta personale, nonostante la maggioranza delle unioni siano ancora combinate dalle rispettive famiglie. Inoltre, ha continuato il politico, il matrimonio fra due adulti non è un terreno nel quale si possa interferire, nemmeno per questioni religiose, in quanto la Costituzione indiana garantisce anche la libertà di religione. Infine, un’ultima accusa riguarda la vittimizzazione della donna, che diventa, in effetti, l’obiettivo contro il quale si esprimono queste nuove norme. Si tratta, infatti, di leggi che considerano la donna come un essere passivo, incapace e, apparentemente, senza la libertà di decidere per la sua vita.

Per molti, quindi, le mosse di questi stati controllati dal governo Modi porterebbero il Paese ad uno stato di medievalismo che da tempo si ritiene superato, e che abbandona giovani coppie, e in particolare le donne, in balia della polizia e delle autorità locali. Il dibattito è tutt’altro che concluso e rientra nella situazione generale dell’India del secondo decennio del XXI secolo, dove un governo chiaramente nazionalista, populista e discriminatorio nei confronti delle minoranze non perde occasione per ribadire il suo diritto di garante della comunità maggioritaria indù, in nome di una ideologia nata un secolo fa – l’hindutva – che è tutt’altro che espressione dei valori e delle tradizioni che le religioni dell’India hanno testimoniato per secoli, accogliendo gruppi sociali e religiosi di ogni tipo in uno spirito di pluralismo costruttivo.

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