L’oscar della rinascita

Perché, nel sistema giudiziario americano, i giurati non possono abbandonare l’aula del tribunale, dove trascorrono giorni e notti senza poter avere alcun contatto con l’esterno, fino a quando non emettono la sentenza? Perché la loro decisione potrebbe essere influenzata dai media, dai contatti con le persone, dal clima che si crea intorno al caso che stanno discutendo. Se, per un’ipotesi che sfiora la fantascienza, i 5739 votanti della 74a edizione dell’Oscar il 10 settembre 2001 fossero stati rinchiusi in qualche albergo di Beverly Hills, impossibilitati a comunicare con il resto del mondo, privati di radio, giornali, tv, internet, telefono e via dicendo, le statuette assegnate dall’Academy Award la notte del 25 marzo avrebbero avuto gli stessi destinatari? Si ha un bel dire che uno non si lascia influenzare, si fa un bel parlare di obiettività e serenità di giudizio. Ma se non ci fosse stato l’11 settembre e il tragico attentato alle Twin Towers i premi Oscar avrebbero preso la stessa strada? Se nella storia degli Oscar c’è un’edizione fortemente influenzata dagli eventi esterni è stata proprio la 74a. A Beautiful Mind ha conseguito un bel bottino con 4 Oscar su 8 “nomination”, ma quel che più conta è che si è portato a casa le statuette di maggior prestigio: miglior film e miglior regia, sbaragliando titoli come Il Signore degli Anelli (su 13 candidature 4 statuette, ma esclusivamente premi tecnici), Gosford Park, In the Bedroom, Moulin Rouge; e autori come Robert Altman, Ridley Scott, David Lynch. Ebbene, A Beautiful Mind non è forse l’emblema della rinascita dell’uomo americano dopo avertoccato il fondo dell’abisso? Non è forse l’allegoria che incarna la forza della volontà capace di superare ogni ostacolo e ogni traversia? E il regista che l’ha diretto, quel Ron Howard già autore di Apollo 13, altra bandiera dell’eroismo e dello spirito di sacrificio “made in Usa”, non è forse l’immagine acqua e sapone della miglior America: la stessa America cresciuta assieme a lui fin da quando, ragazzino dai capelli rossi, era uno degli interpreti dell’inaffondabile e sempre valida serie televisiva Happy Days? Tra i suoi produttori figura infatti la Dreamworks di Steven Spielberg, altra immaginesimbolo del sogno americano, il ragazzo d’oro che si è fatto da sé, regista di quel Salvate il soldato Ryan che rappresenta l’esaltazione di tutte le virtù d’Oltreoceano. Non ce l’ha fatta, invece, il suo protagonista, l’attore australiano Russell Crowe, l’ex gladiatore, che una sottile campagna denigratoria ha dipinto come antisemita, omosessuale (ma primaancora, dopo una sua “lovestory” con Meg Ryan, il “gossip” della maldicenza hollywoodiana l’aveva inquadrato come un dongiovanni sciupafamiglie) e chi più ne ha più ne metta. Ha prevalso lo spirito nazionalista, kennediano, buonista, politicamente corretto con il trionfo degli attori di colore (miglior attore: Denzel Washington per Training Day; miglior attrice: Halle Berry per Monster’s Ball). Mai come in questo momento l’America ha bisogno di togliersi di dosso l’immagine razzista che l’ha colpita per anni. E allora quale miglior occasione di un’apoteosi per i “colored men”, completata da un altro Oscar alla carriera per il vecchio Sidney Poitier, indimenticabile interprete di Indovina chi viene a cena? Su questa linea “politica” si è mantenuto anche l’Oscar per il miglior film straniero, che al superfavorito ma disimpegnato e caramelloso Il favoloso mondo di Amélie del francese Jean- Pierre Jeunet ha preferito il crudo ma significativo No Man’s Land del bosniaco Danis Tanovic, dove non è difficile leggere in trasparenza un altro apologo delle missioni di pace nel mondo, in cui gli Stati Uniti si piazzano di parecchie spanne al di sopra di ogni altro. Di questa tendenza ha beneficiato anche il nostro Pietro Scalia, miglior montaggio per Black Hawk Down di Ridley Scott, che rievoca la disastrosa missione dei ranger americani a Mogadiscio nel 1993. Dall’ondata nazionalistica, sul fronte femminile, è stata travolta anche l’australiana Nicole Kidman, che con Moulin Rouge del connazionale Bazz Luhrmann puntava all’Oscar per la miglior attrice, così come alla stessa ondata non hanno retto due bravissime attrici inglesi (Helen Mirren e Maggie Smith di Gosford Park, di Robert Altman), alle quali, come miglior attrice non protagonista, è stata preferita un’americana doc: la Jennifer Connelly di A Beautiful Mind.

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