L’Onu al bivio

Quando Kofi Annan, lo scorso 11 agosto, ha manifestato i suoi dubbi sulla possibilità di arrivare in settembre a qualche decisione sulle proposte di riforma del Consiglio di sicurezza, ha detto a voce alta quello che forse tutti già pensavano. Questo aspetto della riforma delle Nazioni Unite è quello che ha tenuto banco in questi mesi ed ha impegnato i governi e i loro rappresentanti all’Onu. Il dibattito è ruotato intorno a un solo argomento, le modalità di allargamento del Consiglio. Sul piatto ci sono al momento due proposte, illustrate dallo stesso Annan nel documento predisposto in vista del Summit di settembre a New York, in occasione del sessantesimo dell’organizzazione. La prima prevede l’ingresso di sei nuovi membri permanenti senza diritto di veto, la seconda prevede l’ingresso di otto che restino in carica per quattro anni e siano rinnovabili. Entrambe la proposte vanno nella direzione di equilibrare la rappresentanza delle varie aree geografiche, ma la prima porterebbe all’ingresso definitivo dei quattro paesi che maggiormente la sostengono ovvero India, Giappone, Brasile e Germania, assieme a due africani. La seconda – per la quale si sta spendendo molto il governo italiano – non verrebbe a creare una nuova categoria di membri privilegiati, accanto ai noti cinque con diritto di veto. Il dibattito ha evidenziato più che altro l’uso della riforma delle Nazioni Unite come un aspetto della ricerca di equilibrio tra le potenze, quelle emergenti e quelle come Germania e Italia che ne vedono un riconoscimento o una diminuzione del prestigio acquisito a livello internazionale. Nessuna delle due va a toccare però due nodi fondamentali: l’anacronistico diritto di veto e una rappresentatività che dovrebbe favorire la presenza delle aggregazioni regionali quali per esempio l’Unione europea e l’Unione africana. L’insistenza del presidente Ciampi sul seggio europeo sottolinea proprio questa esigenza. Se si dovesse arrivare a qualche decisione, meglio comunque la seconda proposta rispetto alla prima, perché almeno non crea delle nuove posizioni fisse e lascia aperta la porta a sviluppi futuri più significativi. I documenti ufficiali sulla riforma tengono presenti due piani di rifles- sione, legati fra loro. Quello di contenuto – che delinea la stretta interdipendenza fra le tre aree d’azione dell’Onu, pace e sicurezza, sviluppo, protezione dei diritti umani – e quello sui poteri e sul funzionamento dei vari organi. Fra questi ultimi si inserisce la proposta di Annan di costituire un consiglio per i diritti umani per sostituire la commissione con sede a Ginevra. Le differenze sarebbero soprattutto due: creare un organo permanente, che possa intervenire in maniera più rapida di fronte alle violazioni, ed eleggervi membri quegli stati che dimostrano coerenza interna e internazionale nel loro impegno per i diritti umani. Sul rafforzamento del ruolo dell’assemblea generale e del consiglio economico sociale, le proposte sono piuttosto deboli e sul ruolo degli attori non statali, a cominciare dalle Ong, si è persa traccia di alcune idee concrete per incrementarne la partecipazione e il peso. Al di là delle dichiarazioni ufficiali sembra mancare la volontà politica di avviare delle riforme incisive. La proclamata centralità dell’Onu, da tutti o quasi tutti auspicata, dovrebbe soprattutto condurre a guardare i nuovi o i rinnovati strumenti come mezzi per perseguire i fini dell’organizzazione, in un’ottica rigorosamente multilaterale, ma il clima po- litico internazionale non sembra dei migliori per avviare riforme impegnative. È probabile che almeno alcune proposte riguardanti il funzionamento dell’apparato possano essere varate. Tra queste, urgenti appaiono quelle volte a migliorare i sistemi di controllo interno, per evitare casi come la distrazione di fondi del programma oil for food (la vendita controllata dall’Onu di petrolio iracheno durante il regime di Saddam), e il rafforzamento dei sistemi di intervento rapido in caso di emergenze, messo alla prova dallo tsunami. Utile sarebbe la costituzione di un fondo di riserva cui attingere in attesa delle donazioni, e nello stesso tempo è importante il collegamento con il mondo dell’informazione per far crescere la sensibilità di governi e opinione pubblica per tutte le emergenze, non solo quelle coperte dai media. Per il resto c’è bisogno di una nuova fase costituente che non veda come protagonisti solo i governi, ma che coinvolga rappresentanti dei parlamenti, degli enti di governo locale, della società civile, ossia dei soggetti che possono contribuire a democratizzare le Nazioni Unite e nello stesso tempo che sono emersi come nuovi attori nello scenario internazionale. Si tratta effettivamente – come dice il titolo dell’assemblea dell’Onu dei popoli che si tiene in questi giorni a Perugia – di salvare l’Onu, e se i governi non sembrano avere molte risorse di idee e volontà, la spinta che viene dal basso può essere molto importante, se non decisiva. Per sconfiggere la povertà non bastano gli aiuti Nel 2000 l’Onu ha promosso gli Obiettivi di sviluppo del millennio per ridurre la povertà entro il 2015. Quest’anno se ne fa un primo bilancio. Abbiamo intervistato Lorna Gold, policy analist della Ong irlandese Trocaire e membro della commissione internazionale dell’economia di comunione. Dopo cinque anni quali le sembrano i risultati più significativi raggiunti? La Dichiarazione del Millennio è stata in sé stessa un risultato importante perché ha sottolineato la responsabilità comune per la dignità umana e per la giustizia globale. Inoltre ha evidenziato che la globalizzazione deve essere orientata positivamente per combattere la povertà. I progressi per raggiungere gli obiettivi sono però troppo lenti. In molti casi la tendenza è negativa, come è stato rilevato in uno studio del professor Jeffrey Sachs. Persino nelle economie asiatiche che crescono rapidamente i progressi sono limitati in molti aspetti legati alla riduzione della povertà, a cominciare dalla salute e dalla sostenibilità ambientale. In Asia occidentale crescono i livelli di povertà, e si evidenzia un ritorno della malaria e della diffusione dell’Aids. Nell’Asia meridionale si è aggiunto l’impatto provocato dallo tsunami. In America Latina la povertà è meno estesa che in Asia, ma i tempi di riduzione sono comunque lenti. L’epicentro della crisi è costituito dall’Africa, dove secondo le tendenze attuali il primo obiettivo, di dimezzare le persone che vivono con meno di un dollaro al giorno, potrà essere raggiunto nel 2147. Non significa che tutto sia negativo, ma si tratta di una valutazione approfondita a cinque anni di distanza. Soprattutto c’è la preoccupazione che senza cambiamenti di fondo nella comunità internazionale gli obiettivi non verranno raggiunti. Le sole donazioni per lo sviluppo non sembrano bastare per sconfiggere la povertà. Come affrontare realisticamente i nodi dei rapporti fra commercio e sviluppo, fra finanza e sviluppo? Certamente i finanziamenti da soli non possono dare sviluppo, ma direi che comunque sono un elemento essenziale. I governi hanno iniziato a incrementare i livelli degli aiuti internazionali. L’Unione Europea si è nuovamente impegnata a raggiungere l’obiettivo dello 0,7 per cento da destinare allo sviluppo. È un segno di solidarietà con il mondo povero. Ma assicurare l’efficacia degli aiuti è questione più impegnativa che raccogliere i soldi. Significa avere dei governi nei paesi in via di sviluppo in grado di assorbirli e monitorarli, di superare i problemi endemici della corruzione, di armonizzare le varie azioni sul terreno. C’è uno sforzo comune in questo senso. Ma l’aiuto – come lei dice – non basta: Le altre questioni centrali sono la riforma del sistema commerciale internazionale e la cancellazione del debito estero dei paesi poveri. Sul commercio è necessaria la riforma della politica agricola co- munitaria. Le produzioni agricole in eccesso invadono i mercati dei paesi poveri e distruggono le capacità dei produttori locali. Nello stesso tempo le esportazioni da quei paesi sono bloccate sulla base di regole sanitarie molto strette. Analogamente nella prossima riunione della Organizzazione mondiale del commercio a Hong Kong la discussione verterà fra le richieste di completa liberalizzazione dei mercati dei paesi poveri e la loro richiesta di trattamento preferenziale per proteggere i loro sistemi ancora deboli e assicurare la loro sicurezza alimentare. Lei ha partecipato nel giugno scorso ad una sessione dell’Onu su questi temi dedicata all’ascolto delle proposte delle Ong. Le proposte della società civile trovano spazio effettivo in sede internazionale? La società civile ha raggiunto molti risultati negli anni recenti, se non altro nel porre gli obiettivi del millennio al centro dell’agenda internazionale. Alcune proposte inoltre hanno ricevuto un riconoscimento a livello internazionale. Per esempio è stata la società civile che ha portato avanti l’idea di una tassa per lo sviluppo da applicare alle transazioni finanziarie. Ora l’idea ha raggiunto un livello realistico e credibile. Il Belgio ha fatto una legge adattabile anche ad altri governi europei. Nei negoziati politici la società civile sta acquistando una certa forza. ONU E NEW UMANITY New Humanity è la Ong del movimento riconosciuta dal Consiglio economico e sociale dell’Onu. Da gennaio di quest’anno rientra – insieme ad altre 120 organizzazioni – nella prima categoria, che comprende le Ong con un ampio spettro di attività e di internazionalità. Dal 1987 ad oggi la presenza di New Humanity si è caratterizzata soprattutto nel campo economico, con la presentazione di documenti nel settore dello sviluppo, della responsabilità sociale delle imprese, dell’etica economica ispirata all’economia di comunione. Egualmente significativa la presenza nel settore della salute e della famiglia, con idee e documenti recepiti dai settori competenti delle Nazioni Unite. È presente anche alla sede Onu di Ginevra con interventi presso la commissione diritti umani sui temi dei diritto allo sviluppo e del terrorismo internazionale. Nel maggio scorso infine, proprio nella città svizzera, si è svolto in collaborazione con Sportmeet un qualificato convegno nell’ambito dell’anno internazionale dello sport, proclamato dall’Onu per il 2005.

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