Lombardia al voto, gestione della sanità al centro del confronto

Chiamata alle urne il 12 e 13 febbraio per definire il governo di una Regione che è il cuore produttivo del Paese, con un Pil superiore a quello di alcuni Stati  europei, ma che deve fare i conti con le carenze messe in evidenza dalla pandemia nel settore sanitario
Lombardia . manifestazioni a Milano sul Ssn durante l'epidemia Foto Claudio Furlan - LaPresse

Smaltita l’indigestione da sondaggi che negli ultimi mesi, loro malgrado, li ha colpiti massicciamente, tra domenica 12 e lunedì 13 febbraio, quasi 8 milioni di lombardi saranno chiamati a votare per eleggere il nuovo presidente e il nuovo consiglio di Regione Lombardia.

Tre i candidati che contendono il ruolo al presidente uscente Attilio Fontana, esponente della Lega con ambizioni di riconferma, sostenuto da tutto il centrodestra: il parlamentare europeo del Partito Democratico Pierfrancesco Majorino, forte dell’investitura del centro sinistra e della promessa di voto del Movimento 5 Stelle; Letizia Moratti, già vicepresidente di Fontana, che corre con una propria lista civica ed ha l’appoggio di Azione e Italia Viva; Mara Ghidorzi di Unione Popolare in cui si riconoscono Rifondazione comunista, Potere al popolo e Democrazia e Autonomia.

Ribadito che tutte le elezioni sono importanti, va riconosciuto che quelle per il governo della Lombardia lo sono in maniera particolare. In molti ne hanno elencato le ragioni, a cominciare da quelle economiche. La Lombardia è tra le regioni più ricche d’Europa, con un prodotto interno lordo secondo solo alla regione di Parigi.

Di più: il Pil lombardo – che contribuisce a circa un quinto di quello nazionale – vale 1,8 volte quello del Portogallo, più del doppio di quello della Grecia e quasi tre volte quello dell’Ungheria.

Con poco meno di 10 milioni di residenti è inoltre la regione più popolosa d’Italia, il primo territorio per numero di studenti universitari, la prima regione in Italia per valore aggiunto e per numero di occupati nel sistema produttivo culturale e creativo, capitale del terziario, terra di sviluppo industriale ma anche la prima regione agricola del Paese.

Nell’ultimo dei sondaggi pubblicati prima dello stop di legge a quindici giorni dalle elezioni, sollecitati ad esprimersi con un voto da 1 a 10 sulla qualità della vita nella loro regione, i lombardi si sono detti mediamente soddisfatti (7,1).

Richiesti poi di indicare la priorità dell’agenda di lavoro del dopo elezioni, l’hanno individuata nella sanità territoriale. I quattro candidati in corsa per la presidenza hanno mostrato di esserne più che consapevoli – i servizi sanitari assorbono il 76% degli impegni di bilancio di Regione Lombardia – dedicando alla questione larga parte della loro campagna elettorale.

La narrazione dell’eccellenza lombarda ha dovuto di molto ridimensionarsi negli ultimi anni, sferzata dal tracollo del sistema nei mesi drammatici dell’emergenza Covid. Una sconfitta figlia del depotenziamento della sanità pubblica e dell’adozione di un modello ospedalecentrico con la conseguente marginalizzazione della sanità territoriale.

Un’analisi che Attilio Fontana disconosce. Il presidente afferma che la Lombardia è sopravanzata da molte altre regioni nell’accreditamento dei privati, e riconferma la volontà di continuare nel solco delle scelte storiche del governo regionale; l’unica concessione che si intravede nel programma di Fontana a chi guarda con preoccupazione al mantenimento dello status quo è la possibilità di rivedere il sistema tariffario e la contrattazione con i privati, “chiedendo volumi di prestazioni in funzione dei bisogni di assistenza”.

Davvero troppo poco per Pierfrancesco Majorino che come ex assessore alle politiche sociali a Milano dal 2011 al 2019 nelle giunte di Giuliano Pisapia e Beppe Sala, ha maturato una solida esperienza sul campo. Majorino ha una visione del servizio sanitario regionale fortemente orientata verso la sanità pubblica, ma senza crociate contro il privato, da cui, sottolinea, vanno pretesi pari doveri con sistemi di verifica e di controllo più stringenti. È poi convinto della necessità di riscrivere la riforma sanitaria, con un coinvolgimento non solo formale di chi lavora in sanità, dei pazienti, dei loro familiari e del terzo settore.

Mara Ghidorzi punta invece alla radicale messa in discussione del modello dell’accreditamento ai privati.

Per Letizia Moratti quello della sanità è oggettivamente un capitolo delicato, visto che a gennaio 2021 venne chiamata a prendere il posto di Giulio Gallera nella Giunta Fontana per rimettere in sesto una sanità regionale allo sbando, che un anno più tardi ha associato il suo nome al varo di una riforma del sistema che in osservanza delle indicazioni e dei finanziamenti del Pnrr è tutta orientata sul territorio, salvo poi dimettersi nel novembre scorso per le “lentezze, le difficoltà e le contraddizioni – parole sue – di un’azione amministrativa che non rispondeva più all’interesse dei cittadini”.

Nel suo programma la candidata di Azione e IV parla della necessità di affrontare il rapporto tra pubblico e privato accreditato con “visione e rigore”, di un sistema di verifica delle performance, di telemedicina e di prevenzione delle patologie.

Ha ragione Fontana quando dice che l’Emilia Romagna, tanto per fare nomi, ha maggiore accreditamento del privato nella sanità rispetto alla Lombardia? Sì, ha ragione. Ma il presidente non dice che a differenza della sua Giunta, quella guidata dal suo omologo Stefano Bonaccini ha coinvolto i privati anche nel presidio della sanità del territorio e che in funzione di quella scelta il sistema ha retto molto meglio l’urto della pandemia. A questo va aggiunto che le condizioni, le regole di ingaggio con i privati, sono state in Lombardia sempre particolarmente indulgenti.

Tutti i candidati promettono interventi sulla riduzione delle liste di attesa (a loro modo un’altra faccia del disequilibrio tra servizio sanitario pubblico e offerta sanitaria privata), sulla realizzazione con le risorse del Pnrr dell’ampliamento dell’assistenza territoriale, delle reti di prossimità e dell’ammodernamento tecnologico.

Buoni propositi che si scontrano col serissimo problema della mancanza di medici e infermieri disposti ancora a lavorare nella sanità pubblica. C’entra sicuramente il venir meno di una considerazione generale delle professioni sanitarie, la pressione degli utenti e carichi di lavoro senza riconoscimenti adeguati. Un contesto problematico in cui, forte dei finanziamenti pubblici, il privato si inserisce offrendo stipendi più alti e sbocchi di carriera.

La Lombardia va dunque al voto con questa complessa e ingombrante problematica che inevitabilmente ha tolto spazio all’approfondimento degli indirizzi sulle politiche che avranno in dote il rimanente 24% del bilancio regionale: dalle azioni per la tutela dell’ambiente e la mobilità, a quelle per la scuola (capitolo sul quale ha fatto irruzione l’autonomia differenziata a cui il leghismo affida la speranza di fermare il travaso dei suoi consensi verso Fratelli d’Italia); da quelle per il lavoro e lo sviluppo (su cui pesa la preoccupazione che consolidate politiche di sostegno all’esistente non siano esattamente ciò che serve alla Lombardia per generare nuovi investimenti, spingere sull’innovazione e sulla ricerca) all’energia; dall’agricoltura alla sfida della digitalizzazione. Nella lettura dei programmi elettorali si trovano tante parole chiave , che vanno però in affanno quando si cerca il loro corrispettivo in proposte più solide e articolate.

Se si guarda a come si è distribuito il voto nelle politiche di settembre 2022, in Lombardia tutto sembrerebbe già scritto, ma non sarà di poco conto il modo in cui coalizioni e candidati usciranno dalla consultazione. Si accennava in apertura al numero davvero inusuale di sondaggi, addirittura quindici, che ha accompagnato la campagna elettorale in Lombardia: segno forse del bisogno di qualche rassicurazione in più nella compagine che da 28 anni occupa le stanze di comando della regione? In quella stessa rilevazione in cui i lombardi promuovono sostanzialmente la qualità della vita nella loro regione, il giudizio sull’efficacia della presidenza uscente è più severo e il voto (5,6) non arriva alla sufficienza.

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