Lo zio Vanja di Vinicio Marchioni

Ambientata dentro un teatro di provincia in uno dei luoghi colpiti dagli ultimi terremoti del Centro Italia, la commedia di Cechov, riadattata da Letizia Russo e da Marchioni, regista e protagonista, affronta i temi universali della famiglia, dell’amore, dell’arte, dell’ambizione e del fallimento

 

Dopo l’iniziale detonazione tellurica seguita da una voce radiofonica con la cronaca del terremoto che un anno prima ha devastato l’Italia centrale, il sipario si apre con l’anziana Marina seduta accanto al lungo tavolo impegnata a rammendare, e con il dottor Astrov muoversi pensieroso da un punto all’altro. Il lungo silenzio che precede le prime battute ci permette di spaziare con gli occhi sulla scena per appropriarci dell’immagine totale, addentrarci nel tempo della rappresentazione, poterne misurare la lontananza e sentirla anche nostra.

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Incorniciata da un elevato sipario semiaperto e con un mucchio di mattoni a terra, la visione più eclatante è quella di un muro sfondato oltre il quale s’intravede un grande albero; poi un guardaroba a vista di costumi teatrali sopra il quale, sulla parete, campeggia il manifesto di uno spettacolo con un volto femminile ben in evidenza (la scomparsa sorella attrice del protagonista); e, ancora, un ordinato ingombro di bauli di attrezzeria teatrale e l’uscita di una scala laterale. Dai dialoghi che subito seguiranno, capiremo di trovarci dentro un piccolo teatro di provincia sinistrato dal sisma avvenuto in una delle province maggiormente colpite.

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L’ambientazione che, dalla Russia di fine ‘800 di Cechov, sposta il luogo dell’azione dalla tenuta agricola ormai improduttiva e piena di debiti, a quella, appunto, di un teatro ereditato dai protagonisti della vicenda e ora disastrato, ci riporta al nostro tempo, a una lettura sociale dell’attualità con un chiaro e pertinente argomentare sulla crisi economica e culturale con tutte le difficoltà e i problemi del fare teatro oggi che non risparmia frecciatine a burocrazia e teatranti. Siamo comunque dentro la storia di quel capolavoro di Anton Cechov quale è Zio Vanja, ora riadattato da Letizia Russo e Vinicio Marchioni, regista e anche interprete appassionato nel ruolo principale, e diventato Uno zio Vanja, a voler significare “una” delle tante possibilità di interpretarlo e di metterlo in scena.

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Tragedia e commedia sono il binomio. Marchioni ne ha fatto uno spettacolo popolare nella migliore accezione del termine, che arriva a snidare quell’insondabile presenza della comicità nella tragedia – nocciolo inafferrabile dell’opera di Cechov -, e che farà scoprire o riscoprire e amare ancor più il grande autore russo. Si ride delle miserie di tutti i protagonisti specie dei due personaggi guida della storia, Vanja e Astrov, innamorati entrambi della stessa donna e ritratti nell’immobilismo del tempo e della storia. Il primo è quello che guarda indietro, mentre il secondo, sempre impegnato a far diagnosi su chi lo circonda, ma non in grado di risanare le situazioni, svicola verso il futuro. Ma entrambi espongono al ridicolo la rispettiva drammatica impotenza di fronte alla vita, non diversamente dai contigui personaggi. La commedia è una somma di drammi personali che si sfaldano nell’egoismo, nella sordità del cuore, nella disperata ricerca di un amore, nella solitudine. L’arrivo della bella Elena, giovane moglie del vecchio tronfio inutile professore Serebrjakov, vedovo della sorella di Vanja, è stata come una sciabolata di luce nel grigiore di tante giornate senza domani. Vanja l’ha adorata invano, mentre nelle grazie di lei ha potuto sperare per un attimo Astrov, il medico amico di famiglia che stempera nell’alcol e nella filosofia del nulla i suoi entusiasmi ecologici e l’atarassia esistenziale, e che nella dilagante distruzione della natura – con citazioni ai disastri ambientali, ai rifiuti tossici e ai cambiamenti climatici – vede forse l’irrefrenabile destino di sé stesso. Così come invano si è illusa, per un poco, Sonja, la figlia di primo letto del professore, di poter essere lei a illuminare l’esistenza di Astrov. Quando Serebrjakov se ne vuole andare e pretende di vendere la proprietà, il mite Vanja, ferito dalla vacuità di quell’uomo ingrato e al quale ha sacrificato la propria vita occupandosi della sua proprietà, gli spara due colpi di pistola, che non andranno a segno e lasceranno le cose come prima.

C’è tutto lo spirito cechoviano, il fiume sotterraneo che scorre sotto le frasi, nelle battute di teatro, addosso alle figure sommesse e, insieme, violente di un mondo poetico, privo di confini. Le andature, i gesti, i silenzi, i sospiri, le atmosfere, sono ristudiati dalla viva traduzione e dal riadattamento di Letizia Russo teso a recuperare un’immediatezza mantenendo la stessa struttura e non tradendo la scrittura del gran testo cechoviano che non muta di una virgola in quanto a storia e personaggi in una sovrapposizione di linguaggio moderno che riporta tutto al nostro presente, irrorato in nome di una costante ricerca del ritmo interno, dei moti dell’anima di ieri e di oggi, di tutto ciò che in Cechov palpita sotto l’involucro delle parole.

E sono bravi tutti gli interpreti con, in testa, Marchioni (Vanja), e Francesco Montanari (Astrov), Milena Mancini (Elena), Lorenzo Gioielli (Serebrjakov), Nina Torrisi (una Sonia dalla voce forse un po’ troppo gridata), Alessandra Costanzo (Marija), Andrea Caimmi (Telegin), Nina Raja (Marina). Il regista Lev Dodin affermava che «i testi di Cechov sono fatti di una sottile materia spirituale. Anche se quello che vi accade è reale». Stanislavskij ritenne questa la contemporaneità del drammaturgo, e fece di conseguenza molta attenzione a restituirgliela sulla scena nel modo migliore, cioè in forma di accurata quotidianità. Se per noi tale quotidianità è lontana, per noi Cechov è presente non per le sue descrizioni incredibilmente precise di uomini e donne e delle loro azioni, ma perché coglie aspetti eterni dell’esistenza, caratteristiche non dipanabili dell’animo e del cuore umani. In una sola frase, la passione della vita. Quella che avvertiamo uscendo da Uno zio Vanja.

“Uno zio Vanja”, di Anton Čechov, adattamento Letizia Russo, regia Vinicio Marchioni, scene Marta Crisolini Malatesta, costumi Milena Mancini e Concetta Iannelli, musiche Pino Marino. Coproduzione Khora.teatro e Teatro della Toscana. Visto a Roma, Teatro Ambra Jovinelli. In tournée a Bologna, Teatro Duse, dal 2 al 4/3; a Carrara, Teatro Sala Garibaldi, 6 e 7; Pontedera, Teatro Era, 10 e 11/3.

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