Lo Shabbat a Gerusalemme

Nel giorno di riposo degli ebrei, una serata di condivisione e di dialogo. Dal blog In dialogo
shabbat gerusalemme

È venerdì, una serata tersa e limpida, di quelle che rendono Gerusalemme ancora più magica. È Shabbat

 

La parola ebraica Shabbat לשבת), che significa, letteralmente, smettere, smettere di compiere alcune azioni. Poiché Shabbat è il giorno della cessazione del lavoro. La legge ebraica – halakah – identifica l’inizio del giorno con il tramonto, lo Shabbat, quindi, inizia con il tramonto del giorno precedente il sabato, e termina con quello del sabato sera (per la precisione con l’apparizione della terza stella nel cielo). Per capire l’importanza dello Shabbat il rabbino nostro ospite ci cita una frase celebre: «Israele ha preservato lo Shabbat e lo Shabbat ha preservato Israele».proviene dal verbo ebraico lashevet (

 

Procediamo subito alla cerimonia del kiddush ("santificazione"), che deve essere recitato almeno un’ora dopo il tramonto del venerdì e consiste in una preghiera, nella benedizione del vino e nell’accensione di due candele. Le due candele sono state già accese prima del nostro arrivo. I due angeli che visitano la casa ad ogni Shabbat – ci raccontano – non devono trovarle spente. Uno è buono e l’altro è cattivo. Se le candele sono accese, quello buono dirà: «È Shabbat!» e quello cattivo risponderà: «Amen». Ma se sono spente i ruoli e le risposte si invertiranno.

 

Cominciamo con le prime preghiere e benedizioni. Il capofamiglia ha predisposto dei libretti in ebraico con traduzione inglese. Possiamo seguire mentre lui e la moglie cantano con trasporto sacro e spirituale, creando quell’aria di famiglia che lo Shabbat è chiamato a portare, soprattutto dopo la distruzione del Tempio. Da allora – ci spiega il rabbino – è la casa, l’ambiente domestico, che è chiamato ad avere un ruolo fondamentale nella dimensione sacrale dell’ebraismo. Esso viene santificato ad ogni Shabbat. Al termine del canto, in silenzio sacralità, ci alziamo e ci dirigiamo verso il tavolo. Il capofamiglia versa del vino in un grosso calice, pronuncia le preghiere della benedizione o lo riversa, poi, in piccoli bicchierini da cui ciascuno beve. Poi taglia il pane e lo cosparge di sale e lo distribuisce a ciascuno. Ci laviamo le mani per la purificazione. Dobbiamo mantenere il silenzio. Ci sediamo e consumiamo il pane. Possiamo cominciare la cena.

È un pasto vegetariano – non è parte del rituale dello Shabbat ma una scelta della famiglia che ci ospita. È lo è da trentatré anni – con grande varietà di piatti ed ingredienti. Intanto scorre la conversazione. Si ricordano momenti trascorsi insieme, la moglie ci racconta della sua attività per l’organizzazione per la quale lavora che è impegnata a trasformare i conflitti. Ha una codirettrice che lei stessa ha scelto, palestinese, madre di tre bambini. Un aspetto controcorrente in questo ambiente.

Al termine della cena si cantano ancora alcuni inni, nuovamente in un’atmosfera sacra e di intimità familiare insieme. La serata è stata molto interessante non solo per aver potuto partecipare al cuore della vita intima di una famiglia ebrea, nel momento sacro dello Shabbat, ma, anche, per la profonda comunione di esperienze e di punti di vista nata durante la cena. Sono emersi, infatti, vari dei problemi che rendono difficile il dialogo fra ebrei e cristiani. Si tratta di malintesi pericolosi, che, spesso, si fondano sulla superficialità di considerare alcuni termini e concetti identici o, almeno, vicini. Il rabbino fa l’esempio del termine Messia e di perdono, due parole che sembrerebbero quasi comuni nella terminologia ebraica e in quella cristiana. L’accezione di entrambe è invece molto diversa e da qui possono nascere malintesi pericolosi.

La moglie aggiunge una dimensione fondante: l’empatia. Si tratta di sentire come sente l’altro per arrivare a muovere i primi passi sulla strada del dialogo. È un presupposto, ma senza di esso non si può procedere. Fa venire alla mente il famoso concetto di un teologo cristiano, entrare nella pelle dell’altro e sentire la sua religione come lui la sente. Ma anche la proposta del "farsi uno" di Chiara Lubich è fondamentale a livello dialogico.

La serata si conclude con una parola di ringraziamento da parte di uno di noi, che esprime i sentimenti più profondi di ciascuno: «Grazie per questo momento profondamente spirituale che ci avete chiamato a vivere con voi!».

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