L’Italia entra in guerra. Mai più

Triste anniversario quello che ricorre oggi e che rimanda a 70 anni fa.
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In un mese dedicato da secoli alla festa del raccolto del grano in un Paese ancora in gran parte di cultura contadina, il 10 giugno 1940 Benito Mussolini dichiarò, con un discorso interrotto dalle ovazioni della folla radunata a Piazza Venezia, l’entrata in guerra dell’Italia.

 

Il secondo conflitto mondiale era già in corso dal primo settembre del 1939 con l’invasione della Polonia da parte di un armatissimo esercito tedesco che poteva contare sull’accordo segreto stipulato dal regime nazista con la Russia di Stalin. In pochi giorni, il 27 settembre, dopo il bombardamento a tappeto di Varsavia, la Polonia veniva cancellata come nazione.

Era l’inizio di una tragedia immane che vide, all’inizio, una posizione di non belligeranza da parte di un governo italiano che pure aveva stretto con la Germania, nel maggio del 1939, un “Patto d’acciaio” siglato dal re Vittorio Emanuele III e dal cancelliere tedesco von Ribbentrop. L’accordo prevedeva il mutuo aiuto in caso di guerra di difesa e di offesa «per la sicurezza del loro spazio vitale e per il mantenimento della pace» e adempiere il compito di assicurare, «in mezzo ad un mondo inquieto ed in dissoluzione, le basi della civiltà europea».

 

Come riportano, nel 1939, i diari di Galeazzo Ciano, genero di Mussolini e ministro degli Affari esteri, l’Italia era del tutto impreparata a gettarsi nel conflitto: «Si moltiplica il numero delle divisioni, ma in realtà queste sono così esigue da avere poco più di della forza di un reggimento. Le artiglierie sono vecchie. Le armi antiaree ed anticarro mancano del tutto…non parliamo dell’aviazione ».

 

Prima della data fatale del giugno del 1940, la fitta corrispondenza del duce con Hitler è un continuo chiedere e ottenere il sostegno alle spese di un riarmo che non sarà mai sufficiente a dotare le truppe di mezzi adeguati ma sarà all’origine della fortuna di tanti gruppi industriali. Secondo i piani prestabiliti, l’Italia avrebbe dovuto attendere il 1942 per entrare in guerra, ma i continui e travolgenti successi dell’esercito tedesco, giunto ormai alle porte di Parigi, imponevano di avere una manciata di morti, come disse con cinismo politico lo stesso Mussolini, per potersi sedere da vincitore al tavolo della pace.  Nell’annunciare la consegna della dichiarazione di guerra agli ambasciatori di Francia e Inghilterra, il dittatore, mostrando la retorica del socialista interventista, fece riferimento ad «una fase dello sviluppo logico della nostra rivoluzione; è la lotta dei popoli poveri e numerosi di braccia contro gli affamatori che detengono ferocemente il monopolio di tutele ricchezze e di tutto l’oro della terra». L’Italia «proletaria e fascista» doveva obbedire ad unica parola d’ordine: «Vincere!» per dare «finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo».

 

Da quel giorno di giugno, milioni di braccia si staccarono dagli affetti e dal lavoro nelle campagne e nelle città per andare a combattere in base ad un disegno politico criminale che giunse fino all’abominio dei campi di sterminio ma che suscitò anche risposte terrificanti come i bombardamenti al fosforo sulle città tedesche da parte degli alleati e il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki.

 

Il popolo italiano è uscito fuori da quella guerra con una nuova consapevolezza. Quella del ripudio della guerra come «strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». È il dettato dell’articolo 11 della Costituzione che «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni». Il testo riprende, in maniera significativa, la stessa finalità di assicurare quella giustizia e pace che il discorso di Mussolini voleva raggiungere con la corsa alle armi. 

Un bene, quello della Costituzione repubblicana, da difendere e applicare ancora.

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