L’intricata vicenda Huawei

Da qualche tempo il marchio cinese è diventato il simbolo di una guerra senza quartiere tra Washington e Pechino. I punti di vista opposti hanno una forte valenza diplomatico-militare-politica

Ormai sono star conosciute: Trump e la sua sfrontata politica che muta secondo l’umore, Xi Jinping e la sua calma olimpica, che non reagisce mai d’impeto. Ma entrambi sanno di giocare una delle partite più importanti per il futuro del pianeta.

La guerra commerciale tra Usa e Cina può avere conseguenze sul resto del mondo, in particolare su Europa ed economie asiatiche. Non sappiamo, al momento di andare in stampa, quali saranno gli sviluppi della vicenda, ma sappiamo che è in atto un confronto senza quartiere tra due visioni del mondo. Ormai il pianeta è multipolare, il che è positivo, ma logicamente gli Usa cercano di non perdere il potere acquisito. Si avanza perciò a vista, con attacchi e ritirate, con compromessi e scambi di favori politici, come è avvenuto nell’ultimo G20 di Osaka. Tutto ciò evidenzia, purtroppo, la mancanza di istituzioni e prassi internazionali capaci di regolare problemi transnazionali, in particolare nella governance della Rete.

IL CASO HUAWEI VISTO DALL’ASIA

di George Ritinsky

corrispondente dall’Estremo Oriente

Huawei, ovvero Huawei Technologies Co. Ltd, è una società privata cinese fondata nel 1987 da Ren Zhengfei (1944) con quartier generale a Shenzhen. È il secondo marchio di telefonia mobile al mondo e nei primi 4 mesi del 2019 ha conosciuto un incremento di fatturato del 39% rispetto al 2018. La sua forza è il mercato interno. Solo telefonia mobile? Certamente no: soprattutto grandi impianti, sistemi di telecomunicazioni e smistamento dati. Sistemi che hanno successo anche negli Usa. I prodotti Huawei sono utilizzati da 45 dei primi 50 operatori mondiali di telefonia mobile, diffusi in 140 nazioni. Il nocciolo del problema tra Usa e Cina sta nel servizio di telefonia 5G Huawei, che il Dipartimento di Stato Usa afferma essere un pericolo per la sicurezza dei dati e contro gli interessi degli Usa, ma che si vende ovunque.

Da parte sua la Huawei afferma che i suoi impianti 5G non hanno rischi maggiori di fuga di dati, ma è disposta a firmare protocolli d’intesa sulla sicurezza dati con i governi. La ditta di Shenzhen è infatti il primo produttore al mondo di sistemi 5G, con 2-5 anni di vantaggio sui suoi concorrenti, gli europei Ericsson e Nokia, mentre gli Usa non hanno concorrenti all’altezza. Ma le aziende statunitensi vendono componenti alla Huawei per 70 miliardi di dollari. Ogni anno la Huawei investe il 10% del fatturato in ricerca e sviluppo, settore in cui lavorano 76 mila persone. Accoglie “cervelli buoni” da tutto il mondo e invia i propri altrove. Esistono 21 istituti di ricerca nel mondo, uno di prossima apertura in Canada, dove è stata arrestata (in attesa di estradizione verso gli Usa) la figlia di Ren Zhengfei, Sabrina Meng Wanzhou, con l’accusa di aver contravvenuto al divieto di commerciare con l’Iran.

Per ragioni di sicurezza nazionale, il governo Usa aveva invitato i suoi alleati a non utilizzare i prodotti Huawei. Una mossa vista in Asia come l’ultima chance per limitare un’azienda lanciatissima. Una situazione allentatasi al G20 di Osaka, con l’autorizzazione alle aziende statunitensi di vendere prodotti alla Huawei, anche se formalmente la questione non è risolta. Intanto a Sabrina Meng Wanzhou sono stati concessi gli arresti domiciliari. Dovrà abitare a Vancouver, portare un braccialetto elettronico e ha consegnato il passaporto.

Chi ha ragione? La Cina negli ultimi mesi sembra aver mantenuto i suoi impegni per un commercio libero: non ci sono liste di aziende indesiderate in Cina (anche se da tempo alcuni operatori, come Google, sono esclusi di fatto dal grande business cinese). Si parla di un blocco delle esportazioni dei minerali rari o della vendita dei titoli di Stato Usa sul mercato finanziario, di cui la Cina detiene una cifra vicina al 20% totale. Il viceministro Le Yucheng ha affermato che sarebbero disastrose le conseguenze di una politica che trattasse la Cina come un nemico.E aggiunge: «Ostacolare i rapporti interpersonali tra i cittadini delle nostre nazioni sulla base delle differenze di razza è impopolare».

 

IL CASO HUAWEI VISTO DAGLI STATI UNITI

di Maddalena Maltese

corrispondente dal Nord America

«In un mondo globale non si può essere primi troppo a lungo e di questo devono farsene una ragione sia Trump che la Huawei». Martin, corrispondente cinese alle Nazioni Unite, liquida così la diatriba che, da mesi, vede contrapporsi i due giganti dell’economia mondiale.

Il giornalista, come altri dirigenti cinesi, non fa mistero sui sussidi statali e sui contratti con il partito e l’esercito, contributi importanti alla crescita dell’azienda che, proprio grazie a questi benefici e a una serie di barriere politiche, può mettere in scacco i concorrenti. «Ancora due anni e l’Occidente avrà la sua tecnologia 5G a basso costo e rivaleggerà con Huawei, mentre la Cina, con il suo piano Made in China 2025 e gli investimenti in ricerca e sviluppo, si renderà più autonoma dalle tecnologie occidentali». La conclusione di Martin è lapidaria nel descrivere la rincorsa nel mercato hi-tech, sempre più interdipendente e competitivo.

L’ordine esecutivo con cui Trump, lo scorso 15 maggio, ha imposto restrizioni sulle importazioni tecnologiche dalla Cina e l’obbligo per 30 aziende Usa di richiedere una licenza speciale per vendere alla Huawei (ma le ultime notizie vanno nella direzione di una liberalizzazione), sembra che sia in parte dettato dal timore che Pechino utilizzi l’impresa per spiare. Il rischio, evidenziato dal Pentagono già nel 2005, sembra confermato da alcuni arresti eccellenti e dal curriculum dei dirigenti: sia il Ceo di Huawei che il suo presidente vantano lauree in accademie militari; mentre la direttrice amministrativa, fermata in Canada, ha un passaporto concesso a membri del partito e impiegati in imprese statali.

Anche negli Usa sono note le collaborazioni di Google e Verizon con il Pentagono, in termini di utilizzo di droni, reti e posti di lavoro per veterani. Facebook stesso ha dovuto ammettere l’ingerenza impropria sui suoi dati, rivelata dall’ex tecnico della Cia Snowden; e proprio queste rivelazioni hanno spinto Congresso e imprese a varare policy restrittive per blindare la privacy degli utenti di fronte allo Stato. Trump chiede  lo stesso a Xi Jinping che, non potendo mostrarsi remissivo in termini di concessioni, ha alzato il tiro ingaggiando 10 mila sviluppatori per rendere autonome le proprie aziende dalla tecnologia Usa. Il bando statunitense infatti ha quasi ridotto sul lastrico la compagnia Zte, totalmente dipendente da chip e processori made in Usa, mentre la Huawei ha dichiarato di avere risorse per un anno.

Trump, forzando sulle restrizioni alle vendite di elementi chiave per i calcoli e il cloud computing del 5G, vuole negoziare cambiamenti strutturali nell’economia avversaria su proprietà intellettuale, costi, libertà d’impresa sul suolo cinese. Il disgelo all’incontro del G20, frutto di una diplomazia attenta, è stata salutata con sollievo sia dalle aziende Usa che dalla stessa Huawei. Restano sullo sfondo le questioni sull’influsso delle tecnologie sulle democrazie e sui governi.

 

È ANCORA UNA QUESTIONE DI POLITICA INDUSTRIALE?

di Alberto Ferrucci

Nella confusione delle informazioni sulla convenienza o meno di adottare la tecnologia 5G dell’azienda cinese Huawei, ritorna spesso il termine back door, porta sul retro, che ci ricorda il film Wargames, in cui un giovane hacker attiva per gioco in un computer militare una simulazione bellica che può trasformarsi in una vera guerra nucleare: la bloccherà grazie alla password (Josua) che serve per entrare nell’accesso nascosto del programma, rivelata dal suo costruttore in pensione.

I programmi che utilizziamo, hanno accessi nascosti? Per chi produce software per uso distribuito, accessi riservati servono per modificare i programmi a distanza, come fanno spesso i gestori delle app dei nostri cellulari: tramite essi, però, si può aver accesso ai dati degli utenti e anche bloccare a distanza un cellulare come una centrale elettrica o un volo aereo; quando utilizziamo strumenti telematici, siamo alla mercé della correttezza dei produttori, la fiducia dipende dalle leggi e dai governi degli Stati in cui sono prodotti.

Per aumentare la capacità di trasmissione, la Huawei ha investito 600 milioni di dollari nella tecnologia 5G, che trasmette a corto raggio, tramite migliaia di antenne, onde ad alta frequenza con una lunghezza d’onda “millimetrica”, ancora inferiore a quella delle onde radar e Gps: serve per gestire l’enorme numero di dati dell’Internet of things, Internet delle cose, che accentra i dati di computer, cellulari, elettrodomestici, impianti di casa e autovetture, e ci avverte dell’appuntamento dal dentista, regola il riscaldamento e ricorda di comprare il pane.

Gli Stati Uniti hanno finora privilegiato l’intelligenza artificiale e temono la diffusione della 5G di Huawei non per l’impatto ambientale, ma perché offrirebbe alla Cina un’arma formidabile in caso di guerra cibernetica; Trump, per mettersi in posizione di vantaggio, aveva proibito il futuro rinnovo di licenze software americane ad aziende cinesi, ma la situazione è di nuovo fluida.

L’Unione europea che dice in questo contesto? Fintanto che non si sarà affermata un’autorità internazionale per questo settore, riconosciuta e rispettata da tutti, affidarsi a terzi, anche se alleati di lunga data, è sempre un rischio: questo ha spinto l’Unione a creare Galileo, il sistema autonomo di satelliti per il posizionamento globale alternativo al Gps, che è gestito dai militari americani: se l’Europa, dopo averne testato a fondo la sostenibilità ambientale, accettasse la tecnologia 5G (potrebbe rifiutarla, come ha fatto per gli Ogm), a mio parere dovrebbe sviluppare per essa una tecnologia autonoma.

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