Lino Guanciale. Tra teatro e cinema

Sul set del suo ultimo film ci racconta dei suoi personaggi e delle sue scelte artistiche. "La mia priorità formare il pubblico all'arte e al bello".
Lino Guanciale

Un trentenne affabile, colto e sincero. Non è di maniera il sorriso con cui ti accoglie, perciò la conversazione fluisce libera, confidenziale. Lino, attore teatrale di sperimentata bravura, da qualche anno lavora anche al cinema. Lo incontro sul set de “Il sesso aggiunto”, l’opera prima di Francesco Castaldo, in uscita in autunno. Un film duro, di droga, ma soprattutto di amore. Drammatico. Commovente. Lino interpreta Valentino, un giovane vittima dell’Aids.

 

«Un po’ tutti i personaggi di questa sceneggiatura sono estremi. L’estremità più tragica è appunto quella di Valentino, sieropositivo, malato di aids, che ha una funzione precisa. Il suo infatti è un destino tragico, ma in qualche modo è anche un destino di redenzione, perché attraverso la malattia ritrova la dignità perduta, e questo in qualche modo aiuta anche il protagonista Alan a fare determinate scelte. Valentino fa un percorso di riappropriazione di sé stesso, riesce a ritrovarsi. Certo, la sceneggiatura di questo film è molto inusuale nel panorama cui siamo abituati, propone un linguaggio difficile da portare nella recitazione, è quasi più parente di certe cose teatrali. Ma per questo motivo è un bello stimolo lavorarci e mi sembra sia un’opera ben costruita. Per cui apprezzo molto quello che Francesco (Castaldo, ndr) sta facendo».

 

 

Cosa significa per te il personaggio di Valentino? 

«Nella scrittura del film, ciò in cui mi sono più ritrovato è stato che non si piega tanto sugli aspetti splatter della tossicodipendenza, quanto sulla dimensione del tutto privata entro cui la si vive. Alla fine infatti è un dramma individuale, che ha poi delle implicazioni familiari e sociali pesantissime. Ma il fatto che il racconto sia concepito come la ricerca di un uomo su sé stesso per arrivare ad uscire da un tunnel, ricerca che provocatoriamente si chiama amore per la vita, coglie più nel segno il problema: si parte dalla esperienza individuale di un ragazzo e poi si parla di ciò che da essa si irradia. Credo che questo modo di raccontare trasmetta meglio l’essenza di alcuni problemi personali vissuti da chi sta o chi si avvicina a questa condizione. Penso che abbia un senso ottimistico il film, pur con tanto dolore. Infatti, se si riesce a fare i conti con sé stessi, senza pietà, alla fine si riesce a venire fuori anche da situazioni come questa».

 

Parliamo ora degli altri film che hai girato… 

«Sono già usciti Io, don Giovanni di Carlos Saura e La prima linea di Renato De Maria. Ho poi girato il film di Michele Placido su Vallanzasca ( che andrà a Venezia, fuori concorso, ndr) ed un altro con Molaioli, una bellissima sfida perché affronta il crack della Parmalat. Sarà un lavoro che metterà a disposizione del materiale di riflessione importante, come già è successo con La Prima linea».

 

Prima Linea è un film sugli anni di piombo, molto equilibrato. Forse è questo il motivo per cui ha avuto poco successo?

«Probabilmente è così, però è parecchio forte nella parte iniziale. C’è una partenza molto segnata in cui, pur con pacatezza, non si rinuncia a dare come assunte certe verità sulle stragi dei primi anni ’70, verità che invece si fatica ancora a riconoscere. Io lavoro molto nelle scuole. Mi sento dire spesso che a Piazza Fontana la bomba è stata messa dalle Br! Purtroppo molti hanno remato contro questo film, perché in Italia ci si nega a certe riflessioni, ma così finisce che i nostri ragazzi ignorano completamente la storia. Al di là della particolare costruzione drammaturgica della scrittura, dell’equilibrio, credo che La Prima linea – un lavoro su cui i fratelli Dardenne spesero parole bellissime in conferenza stampa – sia un film che ha sofferto di troppi pregiudizi, e questo dispiace. In Germania, tanto per fare un esempio, hanno cominciato a fare i conti col terrorismo in maniera più sincera. Da noi resta un enorme tabù».

  

Sei stato Mozart in Io, Don Giovanni di Saura…

 «E’ un film che ha sofferto molto per problemi di lavorazione. Nonostante i bei colpi d’ala di due grandi maestri come Saura e Storaro credo patisca una certa disomogeneità. Comunque per me è stato divertente interpretare Mozart. Ho cercato di togliermi di dosso la pressione che ci poteva essere per un ruolo simile, pensando che fosse solo controproducente. Era il mio primo film, ed ho voluto affrontarlo con la maggior spensieratezza possibile. Credo che Mozart affrontasse la musica un po’ in questo modo, tra i tanti guai della vita contigente. Penso che la musica, oltre che lo sfogo, la passione, la creazione di questo genio incomparabile, fosse anche un rifugio dove ritrovarsi ed essere felici in qualche misura».

 

Hai dato di Mozart una immagine ridente…

 «A me è sembrato che cavalcare soltanto i suoi ultimi anni di sofferenza appesantisse il racconto. In quel periodo Mozart ha scritto Le Nozze di Figaro, che sono una magia di vitalità, e il Don Giovanni, che ha una scrittura musicale ricchissima. Lo intuisco perché so suonare il pianoforte – è il motivo per cui sono stato chiamato a fare il provino per il ruolo -–e poi leggo e ascolto tanta musica colta – di Mozart amo soprattutto il concerto per piano e orchestra k 466 -. E’ qualcosa che arricchisce molto. Certo, il film di Saura è diverso da Amadeus di Forman, ha un taglio teatrale, non è un film biografico, ci si concentra su una esperienza sola, quella del Don Giovanni».

 

 

Ora lavori anche al cinema. Ma il teatro resta il tuo primo amore…

 «Da ragazzo volevo fare il medico. Galeotto fu un laboratorio teatrale dell’anno della maturità, sembrava uno sfizio e invece ho deciso che quella sarebbe stata la mia vita. Ho studiato lettere a Roma all’Università e discipline teatrali. Al secondo anno universitario  sono riuscito ad entrare all’Accademia Silvio D’Amico. Dopo tre anni di studio, dal 2003 ho comincia a lavorare subito con Proietti, Branciaroli, Ronconi, con altri grandissimi attori come Popolizio, Warner Bentivegna, Umberto Orsini…e soprattutto ho iniziato a collaborare con Claudio Longhi, il regista che è un po’ il mio compagno di strada».

 

Credo che le sensazioni siano diverse quando si è sul set da quando si sta sul palcoscenico.

 «Il teatro ha un senso differente. Sei concentrato a parlare con le persone che stanno lì, per cui ci sono delle cose che solo il teatro può dare e comunicare alla gente, come ci sono altri argomenti o messaggi tipici solo del cinema. Fare cinema è un gran divertimento, come i giochi dei bambini. Non è neanche troppo faticoso, la cosa più stancante è di dover aspettare molto tempo, per cui l’esercizio della concentrazione diventa il dato più importante.

Quanto al teatro, da un paio d’anni lavoro con un mio gruppo, raccolto attorno a Claudio Longhi, appunto, e un po’ da indipendenti abbiamo iniziato a fare i nostri progetti, lavorando a Bologna, Parma e a Roma. Qui debuttiamo nel 2011 al Teatro Argentina con  La resistibile ascesa di Arturo Ui da Brecht. Siamo piuttosto brechtiani! Inoltre, come è nostra consuetudine, faremo precedere e seguire lo spettacolo da una serie di attività formative nelle scuole superiori e nelle università. E’ questa la mia grande priorità: il lavoro della formazione del pubblico, per cercare un futuro concreto per il teatro, ormai tanto povero di attenzioni istituzionali e di spettatori.

Sono fermamente convinto, insomma, che l’arte non solo debba cercare il bello, ma anche l’utile che fa crescere chi fa e chi osserva, al fine di generare ancora nuova arte e nuovo senso».

  

Tu sembri davvero un cultore della bellezza. Che idea te ne sei fatta?

 «Canetti, che amo molto ,dice che la bellezza è tale perché si riferisce a qualcosa che ad un certo punto si allontana, sta assente e poi ritorna. Ha a che fare con una certa distanza, che è poi quella che consente ad esempio ai giovani di sognare il futuro, di vedere dove vorrebbero arrivare. La bellezza risveglia sempre delle ambizioni di crescita personale, ed è quando questo accade che penso che chi ha dipinto o ha scritto abbia raggiunto il suo obiettivo. La vera beatitudine è guardare qualcosa di tanto bello da farti desiderare di essere così! Ecco, questo io lo provo con Mozart, con Caravaggio, ma anche con degli attori. Mi è capitato ad esempio lavorando con Branciaroli. Generare nel pubblico questa beatitudine significa anche fornirgli degli strumenti per riuscire a raggiungere la bellezza, fargli constatare come non sia impossibile accedervi, come essa possa essere patrimonio comune. Credo sia questa la missione degli artisti, questa la loro vera utilità».

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