L’India, il cristianesino, l’Occidente: un faccia a faccia ricco di promesse

Intervista a Mons. Thomas Menaparampil
Mons. Thomas Menaparampil
  1.              Si parla molto in Europa di cristiani perseguitati in India. Potrebbe offrirci un suo punto di vista reale della situazione?

 

Quando si prendono in considerazione incidenti avvenuti di recente, allora dobbiamo parlare di tragedie, per esempio la situazione dell’Orissa. Tuttavia, mi pare sia opportuno evitare delle generalizzazioni. In un Paese immenso come l’India, le situazioni possono essere profondamente diverse le une dalle altre. Allora, sarebbe bene dire che i problemi che la comunità cristiana ha sofferto in tempi recenti non riflettono la situazione generale. Si tratta di criticità localizzate e la maggior parte di questi problemi si è verificata quando, in diversi stati dell’India, era al potere un partito ben preciso[1]. Con le ultime elezioni si è avuta la dimostrazione chiara che la società indiana nel suo insieme ha rifiutato l’atteggiamento di ostilità verso le minoranze.

 

Non voglio dire che l’ala politica, per così dire, “fondamentalista” sia morta. Sembra aver costruito una sua base culturale e, dunque, è inevitabile che emergerà di tanto in tanto. Più che preoccuparsi degli incidenti occasionali che minacciano a livello locale, mi pare sia opportuno preoccuparsi del fatto che alcuni intellettuali indiani stanno maturando un ripensamento sul loro ruolo neutrale nei confronti delle religioni. Se il partito del “fondamentalismo” riesce a impadronirsi della fedeltà politica di un crescente numero di intellettuali, allora è inevitabile che le prospettive diventino davvero negative. Speriamo tutti che tale pericolo possa essere scongiurato, ma non si può prevedere veramente cosa potrà succedere.

 

Sono preoccupato, comunque, anche della comunità dei cristiani. Come gruppo minoritario esiste la possibilità che diano l’impressione alle comunità maggioritarie di essere gente polemica, che tende a esagerare i propri problemi, a gridare “al lupo al lupo” anche quando non è necessario e realistico farlo, presentando una lista di fatti che magari non sono adeguatamente verificati, offrendo anche un’immagine negativa del nostro Paese sui media a livello internazionale. Come cristiani è necessario essere sensibili alle prospettive delle altre comunità nel mezzo delle quali viviamo. Dopotutto, noi cristiani in India non possiamo pretendere di essere oppressi o perseguitati. Abbiamo tutte le libertà di cui godono gli altri cittadini: di religione, di culto, di espressione, di stampa. Abbiamo diritto a possedere proprietà e gestiamo istituzioni su vasta scala: scuole, ospedali, seminari e case di formazione. Godiamo anche di diritti speciali riservati alle minoranze. Ci sono cristiani che sono eletti in Parlamento ed alcuni sono stati o sono ministri, come l’attuale Ministro della Difesa. Mi pare chiaro da questi fatti, che non si possa certo dire che i cristiani in India siano in pericolo.

Ovviamente le obiezioni da parte della comunità di maggioranza nei confronti di quella cristiana sono due: le conversioni e l’appoggio della Chiesa all’impegno per la giustizia sociale. Si tratta di questioni che necessitano uno studio approfondito e contestualizzato con un adeguato impegno a comprendere che cosa esse rappresentano e con un grande rispetto per tutti coloro che sono coinvolti in tali problematiche. La mia esperienza dice che non esistono ostacoli che non possano essere superati.

 

 

2.              Lei è un profondo conoscitore delle tradizioni ataviche delle tribù del nord-est dell’India. Le ha sapute valorizzare e riconoscere per i valori che hanno. Come vede il problema del rapporto fra cultura e religione? In particolare quale le pare possa essere il rapporto fra il cristianesimo e queste culture?

 

Non voglio apparire pretenzioso. Tuttavia, devo di dire che ho imparato ad amare le popolazioni del Nord-Est dell’India. Ogni volta, poi, che leggo il Salmo 16 trovo queste parole: «Per i santi, che sono sulla terra, uomini nobili, è tutto il mio amore» (Sal. 16,3) Allora, mi fermo per un istante e dico: “come è vero!”. In particolare, ho imparato a valorizzare l’aspetto culturale delle tribù di questa regione. Sono convinto che le comunità tribali qui, come in altre parti del mondo, abbiano qualcosa da offrire alla società moderna. Infatti, la loro visione del mondo e i rapporti comunitari, essendo più vicini alle condizioni originarie del genere umano, hanno un messaggio per le società d’oggi, che hanno preso le distanze da alcune espressioni che costituiscono il nucleo dei valori umani.

 

Per esempio, la loro dimensione comunitaria, è in aperto contrasto con l’approccio individualistico che le società moderne hanno sviluppato. Notiamo che l’individualismo porta le persone ad accumulare, a concentrarsi sui propri bisogni e sul proprio piacere. Chi vive così pare essere soddisfatto della vita, ma ad un livello più profondo anela al rapporto con altri il cui destino è intrecciato con il suo. Mentre l’individualista è fortemente possessivo, la tradizione tribale considera la compartecipazione un grande valore ed assicura una gioia profonda alla persona. Ho saputo che recentemente il grande pensatore Jürgen Habermas ha cercato di invitare ad una riflessione su tali valori che prevalevano nelle comunità tribali originarie.

 

Allo stesso modo, il senso di uguaglianza che prevale nelle comunità tribali è davvero incredibile. Non hanno, infatti, gerarchie rigide. Le persone che contribuiscono di più al bene comune sono riconosciuti come leaders. Ciascuno spontaneamente assume il ruolo per il quale la natura pare averlo dotato in modo particolare. Ma ci sono anche altri valori che possiamo ammirare in queste comunità: la dignità del lavoro, per esempio, o il senso del sacro, il rispetto per la sapienza degli anziani e dei padri, il rispetto per la tradizione e la preoccupazione per la continuità culturale, la cura dei deboli, il rispetto per la natura e per gli altri.

 

La vera sfida della “inculturazione” sarebbe quella di riuscire a cogliere e sfruttare al meglio le risorse che si trovano ai livelli più profondi della cultura della comunità alla quale si annuncia il vangelo, promuovendo e rafforzando i valori più vicini ad esso. Dio ha piantato quei valori nella profondità delle coscienze. Inculturazione significa anche rispetto dell’orgoglio della comunità nel mantenere le proprie radici, sviluppare le tradizioni ed esprimersi nelle diverse forme artistiche e simboliche.

Quando si ha l’atteggiamento giusto nell’offrire il messaggio si contribuisce alla fioritura del genio della comunità. È in questo modo che possono nascere delle chiese indigene.

 

 

3.              Il cristianesimo in India ed in molte parti dell’Asia è considerato una religione di importazione occidentale. Cosa ne pensa? Quali sono le scelte che la Chiesa può e deve compiere per diventare autentica espressione di un mondo così ricco e spirituale qual è il continente Asiatico?

 

La gente ha la memoria corta. Ci dimentichiamo che Gesù è nato in Asia e che, per la maggior parte, le tradizioni della Chiesa delle origini (dottrinale, liturgica e monastica) hanno preso forma in questo continente. I Romani solevano definire i cristiani con tono spregiativo come una “setta asiatica fastidiosa”. Tuttavia, nel corso dell’ultimo mezzo millennio, il cristianesimo si è identificato con l’Occidente e la maggioranza delle attuali comunità cristiane in Asia (eccezion fatta per quelle di origine orientale) sono state fondate o impiantate da missionari pieni di zelo provenienti dall’Europa. Questi hanno organizzato la comunità cristiana locale secondo i modelli visti nei loro Paesi di origine. Personalmente non appartengo al gruppo di coloro che sono ipercritici di quanto essi hanno realizzato, dimenticando l’eroismo di quei primi missionari. Sono certo che hanno fatto quanto di meglio potevano, lavorando anche con certi obblighi e costrizioni e procedendo in base alla luce che avevano nei loro tempi. Il loro zelo e sacrificio non può e non deve essere sottovalutato. È a loro che dobbiamo l’attuale grandezza della Chiesa in Asia.

 

Inoltre, non dobbiamo dare un’eccessiva importanza ad alcune accuse, per altro irresponsabili, da parte di “fondamentalisti” e radicali che continuano a dire che i cristiani sono stranieri o sono finanziati ed appoggiati dall’estero. Sono persone che resterebbero critiche a prescindere da quanto si fa o si potrebbe fare. Un esempio: hanno accomunato il cristianesimo orientale con il cristianesimo dell’Occidente, anche se il primo è di origine asiatica.

 

In ogni modo una cosa, senza dubbio, dobbiamo farla: coltivare una varietà di sensibilità nei confronti delle altre comunità che esprimono religioni, culture, tradizioni ed identità regionali e locali. Proprio in riferimento a questo punto, ho il timore che gruppi diversi di attivisti cristiani lancino segnali contraddittori alla società che li circonda. Sembra, infatti, che chi si impegna nella lotta per la giustizia e coloro, invece, che sono in prima linea per promuovere il dialogo, non abbiano lo stesso stile di approccio e la stessa visione delle cose. Per questo i loro segnali vengono letti in modo erroneo. In alcune occasioni sono anche gli intellettuali cristiani a prendere posizioni diverse. Ovviamente, non c’è nulla di strano in tutto questo. Infatti, concetti prodotti dalla modernità spesso entrano in conflitto con aspetti che si ispirano alla tradizione e alla cultura. Noi proponiamo un dialogo con un confronto. Un dialogo interno ci permette di essere pronti anche a quello con l’esterno.

 

Le attività indirizzate ai diritti umani, a volte, si mescolano con altre problematiche di carattere ideologico, politico, locale o personale. A questo punto le cose si mettono male. È un peccato: tutti hanno buone idee ed hanno anche ragione, da un certo punto di vista. Quando però si esagera, o si arriva ad assolutizzare la propria interpretazione di idee, o si diventa aggressivi nell’imporsi, quando si vuole spingere la giustizia oltre certi limiti, allora si rischia di arrivare al punto dove non si riesce più a distinguere l’ingiustizia contro la quale si vuole combattere. Una autodifesa aggressiva rischia di diventare a sua volta una forma di aggressione. Quando si vogliono esagerare le idee, l’interpretazione dei fatti, dimenticandone la rilevanza nel contesto di riferimento, uno rischia di diventare ingiusto. Penso che l’approccio asiatico dovrebbe essere più gentile. Buddha aveva un fare persuasivo e per questo le sue idee sono arrivate fino agli estremi confini del continente.

 

Considero questo atteggiamento di maggior delicatezza parte fondamentale del genio asiatico. Non necessariamente siamo stati sempre coerenti. Abbiamo importato anche idee ed ideologie sbagliate. Tuttavia, gli asiatici diventano asiatici quando sono sulla via della persuasione, quando sono in un contesto di dialogo. La nuova evangelizzazione ha un grande avvenire nel nostro continente se riuscirà ad adottare una metodologia di sensibilità, rispetto, creatività, approccio intelligente, strategie sostenibili e, soprattutto, la capacità di persuadere.

La gente è pronta ad ascoltare solo se avverte che il proprio senso collettivo viene ascoltato e rispettato.

 

Sarebbe lungo soffermarsi su altri tratti caratteristici dell’Asia. Ma vorrei sottolinearne uno solo. Gli asiatici stimano le persone profonde, persone il cui mondo interiore è più grande di quello esteriore. E non intendo riferirmi solo a persone che hanno una profondità intellettuale, piuttosto a persone che mettono in evidenza la loro serietà spirituale, la loro capacità di cogliere a fondo con una autenticità e sapienza che sa rapportarsi alla dimensione comunitaria. Proprio il rispetto per tutto ciò che è serio ha aiutato le tradizioni religiose dell’Asia a sopravvivere. Come risultato, la società asiatica in generale non rimane accecata facilmente dai prodotti fantasmagorici della modernità e nemmeno da idee, pur allettanti, ma che devono ancora dimostrare la loro validità. Dopotutto, molte prospettive della modernità devono ancora “maturare” alla luce della loro interazione con altre visioni della vita. La gente capisce bene che la vita è una questione seria e che solo coloro che hanno una prospettiva congruente possono davvero sopravvivere come comunità. Sono queste le comunità che danno vocazioni e che sono caratterizzate da profondità spirituale. Quindi non c’è motivo di allarmarsi.

Con tutto questo non voglio dire che in Asia va tutto bene. Abbiamo molto da rivalutare e riesaminare. Comunque, volevo sottolineare come si fonda la vita da noi.

 

 

4.              In Asia oggi, nonostante il carattere inclusivo della mentalità e delle culture di quella parte del mondo, si percepiscono tensioni di diverso tipo fra cristianesimo e religioni. Secondo lei ci portiamo dietro il retaggio di una evangelizzazione che non ha sufficientemente tenuto conto delle culture locali o le motivazioni sono diverse?

 

È vero: le religioni dell’Asia e dell’Oriente sono inclusive. Quelle dell’Asia occidentale hanno, magari, un orientamento diverso, probabilmente anche per questioni storiche. Sebbene debba ammettere che esistono tensioni in Asia ed in merito a numerose questioni, non sono così certo che si tratti di problemi concernenti la religione. Spesso si tratta di questioni con interessi di carattere politico, sociale, economico o etnico, travestite di religioso per acquisire una maggiore credibilità agli occhi delle masse. C’è di fatto una manipolazione del fatto religioso e molte cose sbagliate vengono perpetrate in nome della religione.

 

Sapete bene come la Cina abbia fatto resistenza al cristianesimo in tempi passati quando era proposto da un agente straniero. Ora, invece, pare lo accettino secondo le loro condizioni e le loro modalità. Alcuni studi recenti dimostrano come il cristianesimo sia cresciuto in Cina più negli ultimi 25 anni che in qualsiasi altro momento della storia in altre parti del mondo. Stime prudenti non scendono sotto i 100 milioni. Accademici cinesi sono convinti che il pensiero cristiano sia la vera forza motrice che ha funzionato da propellente per i movimenti di progresso della storia moderna. Se da una parte ammirano i prodotti della civiltà occidentale, dall’altra apprezzano ancora di più le motivazioni profonde di carattere religioso che hanno provocato processi e movimenti: l’illuminismo, per esempio, una nuova visione della società ed i cambiamenti che ne sono seguiti; la rivoluzione industriale e le innovazioni tecnologiche che essa ha prodotto. Quindi, come i Cinesi in passato hanno accolto molte ideologie e tecnologie dell’Occidente, oggi paiono accettare i princìpi cristiani dai quali esse hanno avuto origine. Potrebbe essere che integrino questi nuovi concetti nel pensiero cinese come hanno fatto con il buddhismo, i cui valori sono stati innestati nella cultura confuciana e taoista. Ovviamente esistono pericoli. Sono comunque convinto che San Paolo direbbe che una “porta per il Vangelo” si sta aprendo in Cina. Allo stesso modo c’è una forte risposta al cristianesimo in altri Paesi: come la Corea, il Vietnam, le Filippine e fra le popolazioni tribali di tutto il continente.

 

Come lei dice, le religioni dell’Asia meridionale sono inclusive e quindi sono state anche tolleranti le une verso le altre. Il buddhismo si è diffuso grazie alla persuasione, l’induismo per via dell’assimilazione culturale. Gli indù percepiscono i cristiani ed i musulmani come esclusivisti. Vorrebbero, infatti, farci rientrare in qualche schema indiano. Per esempio, non riescono a restringerci dentro una struttura castale, facendo di noi cristiani una sotto casta come i sikhs o gli shivaiti. Ci trovano un elemento non facilmente digeribile nel loro organismo sociale.

 

Nonostante tutto questo, la loro opposizione non è tanto contro di noi, ma contro l’idea che hanno di noi cristiani. Nostri amici indù concordano che i cristiani sono gente buona, ma troppo autoreferenziali e poco sociali con norme interne piuttosto rigide ed interessi diretti alla propria comunità. Dovremmo evitare di dar adito a tale impressione.

 

A questo proposito posso parlare per esperienza personale. Ho aperto dei centri missionari superando una opposizione rigida. Sapevo che la comunità locale non era contro di me e nemmeno contro le nostre missioni e, persino, neppure contro i cristiani. Erano contrari a quanto pensavano che noi fossimo. Per questo nella fase iniziale del nostro lavoro ci hanno reso la vita veramente difficile. Da parte nostra, non abbiamo mai reagito e risposto con atteggiamenti negativi. Dopo qualche tempo, ci hanno visto tranquilli e calmi senza alcun tipo di risentimento nei loro confronti. Hanno notato che portavamo avanti il nostro lavoro con sincerità trasparente ed hanno avuto chiare evidenze che i progetti che abbiamo lanciato corrispondevano alle esigenze della zona, nell’ambito dell’educazione, dell’assistenza sanitaria e della promozione sociale. Alla fine, quando siamo andati a soccorrerli a causa di alluvioni o di attacchi da parte di elefanti, ospitandoli nei nostri centri, non hanno potuto resistere. Hanno cominciato a scusarsi dicendo che con il loro fare ci avevano ferito. Hanno ammesso di non sapere che cosa volessimo fare. A questo, da parte nostra, abbiamo risposto che ne eravamo coscienti e per questo non avevamo reagito. Quelli che ci avevano creato i maggiori problemi sono, poi, diventati i migliori amici.

 

Nella mia percezione, attività come il dialogo, l’inculturazione e l’evangelizzazione sono profondamente legate ai rapporti e si realizzano grazie all’incontro di persone e di comunità vive. Il problema è che spesso noi “cosifichiamo” tutto, rendendo le persone cose, classificando, analizzando, definendo e creando regole. Tali regole, poi, diventano più importanti delle persone per le quali sono state fatte. («Il sabato è stato fatto per l’uomo»). Ho visto persone, esperte di dialogo a livello teoretico, che si scontravano con i loro vicini di casa, o promotori dell’inculturazione rimanere insensibili al contesto di vita in cui si trovavano. Si trattava di persone molto preparate e capaci a trattare a livello delle idee, delle regole e delle spiritualità … ma tutto come oggetti e cose.

Si dovrebbe, invece, fare il contrario; dovremmo cambiare l’acqua in vino, le cose in persone, le regole in significati e questi in essere umani. Si tratta di personalizzare le cose, di dare un volto umano a quanto facciamo: servizi sociali, assistenza sanitaria e progetti educativi. È questione di dare testimonianza non attraverso l’efficienza e le regole interne, ma grazie alla nostra fede e all’amore. È necessario privilegiare i rapporti in modo che la nostra immagine collettiva possa rivelare il volto di Cristo.

 

Grazie per l’importanza che date alla cultura. Qui è il punto fondamentale e reale. È la nostra insensibilità culturale che, a volte, distorce la nostra immagine agli occhi di altre comunità. Purtroppo abbiamo ridotto l’inculturazione a una questione decorativa e ritualistica, non valorizzando appieno il rapporto con ciascuna comunità secondo Il rispettivo genio.

 

A questo proposito, il primo passo è il rispetto dell’auto sensibilità della comunità. L’inculturazione cerca di esplorare il mondo profondo di una comunità e cerca di relazionarsi ad esso, rispettando la sua prospettiva della realtà, la sua struttura mentale, le sue percezioni e i ritmi naturali. Quando il vangelo arriva ad una comunità con queste modalità, come una forza vitale, è accettato con prontezza. Per esempio, è importante notare che Paolo aveva incontrato resistenza ad Atene quando ha affrontato quel mondo senza adeguata preparazione. Al contrario un cristianesimo ellenizzato non è stato rifiutato. L’inculturazione nello stesso tempo è andata avanti.

 

 

5.              Come vede la posizione della Chiesa in Italia ed in Europa e dell’Occidente in generale nei confronti di queste problematiche?

 

Abbiamo parlato dell’importanza di entrare nel mondo interiore di ogni comunità (società) per proporre il Vangelo secondo le diverse culture. Penso che lo stesso principio si possa applicare ai processi di trasmissione della fede da una generazione all’altra all’interno della società occidentale in cambiamento costante e a ritmi accelerati. In questi tempi sembra esserci un frattura culturale fra le generazioni e questa deve essere colmata. È un problema visibile anche fra persone che seguono diverse scuole di pensiero e coloro che sono ingaggiati in professioni altamente specializzate.

 

In questa società post-moderna, ogni alleanza ideologica, social network, movimento o gruppo d’interesse tende a formarsi degli atteggiamenti propri, che influiscono poi sui relativi punti di vista e prospettive nei confronti del mondo, che vengono considerati degli assoluti. Si tratta di atteggiamenti che, in tempi passati, venivano considerati caratteristici di diversi gruppi etnici. Nella società attuale ascoltiamo messaggi contraddittori in famiglia ed in fabbrica, per strada e nei luoghi di divertimento, nel mondo della politica, dell’economia, della tecnologia, delle scienze sociali, della filosofia e della ricerca religiosa. Dopo che le cosiddette “metanarrative” (spiegazioni esaurienti della realtà) sono state rifiutate, ciascun movimento (ecologico, femminista, etnico, di liberazione) cerca di far sì che la propria prospettiva diventi una metanarrativa con un diritto acquisito di assolutizzare la propria posizione.

 

Inoltre, in quest’epoca di super-specializzazione, il divario fra branche specializzate all’interno delle stesse discipline, tra i loro diversi campi di azione o di servizio è così aumentato che la gente impegnata in un’area specifica di studio o di lavoro sembra essere distante anni luce da colleghi che operano in un altro settore. Ciascuno vive in un suo “universo” chiuso, e tutti sono fortemente secolarizzati.  

 

Portare la fede a persone che si localizzano a diversi gradi di secolarizzazione, e ciascuno chiuso in un suo mondo, richiede una profonda capacità di ricettività dei meccanismi interiori della mente di gruppi e comunità. In tale contesto la psicologia religiosa di comunità è diventata molto importante. Se ignoriamo questo fatto non riusciamo ad entrare nella lunghezza d’onda della gente che ci troviamo di fronte e il nostro impegno di annuncio, sia pure carico di zelo, viene deluso. Ciò richiede assolutamente, da parte di chi desidera evangelizzare, non solo di aumentare i decibel della sua voce, ma di assicurare che la sua comunicazione possa davvero essere intellegibile a diversi gruppi all’interno delle varie specializzazioni.

Un tale compito pare essere una missione impossibile. Tuttavia, è bene che scegliamo la direzione nella quale desideriamo muoverci. Gesù, mi pare, ha assunto diversi toni di voce, di atteggiamento, e diversi approcci quando parlava agli scribi e ai farisei, ai pubblicani, ai pescatori o ai samaritani, alla donna siro-fenicia, al centurione, al capo dei sacerdoti o a Pilato o ancora ad altri. Se una sensibilità diversificata è importante quando ci si rivolge a gruppi etnici e culturali diversi, per annunciare il Vangelo a persone di diversi settori si devono adottare diverse strategie ed approcci. È necessario “costruire” degli evangelizzatori per ogni ambiente specifico.

 

Quando cominciamo ad offrire il Vangelo ad una persona di un’altra convinzione, e lo facciamo per la prima volta, lo si deve fare cominciando la conversazione con l’acquisire concetti e categorie presi dalla percezione del mondo dell’altro. Dobbiamo porci sulle stesse premesse, citare autorità della tradizione a cui appartiene, far riferimento a codici di condotta e a princìpi etici che comprende e rispetta. Passo passo dobbiamo condurre chi è alla ricerca su un terreno culturalmente neutro. Questo significa un contesto di concetti, valori ed autorità che sono riconosciuti e godono di ampio consenso. Solo gradualmente possiamo portare l’interlocutore nel nostro ambito culturale ed introdurlo nel nostro contesto di pensiero cattolico. È necessario impostare con intelligenza i tempi di passaggio e transizione.

 

Vorrei interrompere per un attimo quanto sto dicendo per aggiungere una nota cautelativa riguardo al dialogo. Quando invitiamo persone di una certa tradizione culturale e religiosa esiste il pericolo concreto che ci troviamo ad avere a che fare solo con persone di élite, che ovviamente rappresenterebbero una loro prospettiva specifica: per esempio in India persone di casta alta. Invece, gruppi e comunità di un diverso livello sociale potrebbero avere altre prospettive e percezioni. L’essere coscienti di questo pericolo ci cautela sul come impostare il discorso ed avere un quadro realistico della realtà.

 

Per esempio, io sono rimasto incredulo di come Chiara Lubich, cresciuta in un mondo totalmente cattolico, abbia potuto sviluppare un’apertura alle tradizioni sia di altre Chiese, che di religioni, culture e civiltà diverse. Avrei, davvero, voluto vivere al suo tempo!

Penso che, con il suo atteggiamento universale, abbia pienamente compreso il vero significato di “essere cattolica”. Infatti, noi apparteniamo alla famiglia umana e siamo fieri di ogni eredità, sia essa culturale, di civiltà, filosofica, scientifica ed artistica. Prendiamo ciò che c’è di buono da qualsiasi scuola di pensiero (2 Cor 10, 5), e da qualsiasi tradizione umana.

 

Come ha detto Tagore, qualsiasi successo umano ci appartiene. Questo era anche l’atteggiamento del Mahatma Gandhi e di Jawaharlal Nehru. Il rispetto degli altri non riduce assolutamente quanto riteniamo prezioso per noi. Non crediamo allo scontro di civiltà ma piuttosto all’incontro di civiltà e desideriamo che si arrivi ad una comunione di civiltà. Forse è proprio questo che sta cercando di fare il Focolare. Ed in questo sono felice di essere un partner.

 

Parlando in modo più specifico dell’evangelizzazione e dell’Occidente, dobbiamo riconoscere che nei secoli scorsi, per vario tempo, è stato proprio l’Occidente a prendere la leadership nelle iniziative religiose. Sarebbe davvero un peccato se, in un momento storico in cui tutte le religioni stanno sperimentando un revival religioso, proprio la roccaforte del cristianesimo rimanesse assente. Quando tutte le civiltà ed anche le culture che si trovano più ai margini stanno cercando di riscoprire se stesse e sono alla ricerca di un posto nel nuovo ordine delle cose, la civiltà occidentale non dovrebbe essere colta in uno stato di dubbio su se stessa. Se persone critiche, come possono essere gli intellettuali cinesi, nutrono ammirazione per il trampolino di lancio spirituale di quella civiltà e se la gente, praticamente di ogni cultura, sta adottando idee di valore che provengono dall’Occidente, sarebbe una tragedia se il punto da dove quelle scintille ispiratrici hanno avuto origine, rimanesse abbandonato e dimenticato. Esse, infatti, appartengono al genere umano intero. Che l’Occidente non ignori Cristo nell’acceso dibattito riguardo a problematiche che riguardano direttamente il nostro futuro!

 

 

Mons. Thomas Menaparampil è Arcivescovo Emerito di Guwahatie (Nord Est dell’India), esperto in evangelizzazione ed inculturazione della fede nei contesti delle popolazioni tribali del Nord Est. Presidente della Commissione per l’Evangelizzazione del FABC Federation of Asian Bishops.

 

Roberto Catalano, ha vissuto quasi trent’anni in India, dove ha lavorato in vari ambiti ecclesiali e nel dialogo interreligioso soprattutto fra indù e cristiani. Attualmente è co-responsabile del Centro per il Dialogo interreligioso del Movimento dei Focolari ed insegna in diverse istituzioni materie pertinenti il dialogo ed il ruolo della religione nei rapporti fra comunità e stati.



[1] Il riferimento è al Partito del Bharatya Janata Party (BJP), che ha governato l’India in coalizione con altri partiti definiti fondamentalisti, come lo Shiv Sena, a cavallo degli anni Novanta del secolo scorso ed i primi del nuovo millennio, fino al 2004. Il BJP da allora, pur attraversando anni di crisi di identità politica, ha tuttavia vissuto su una robusta piattaforma ideologica con forte impatto sull’amministrazione locale, costruita nel corso dei due decenni precedenti.…. [NdR].

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