L’impasse ucraina e l’attentato al Crocus

È tutt’altro che finita la guerra del Donbass. Forte dell’ennesimo plebiscito alle elezioni russe, Putin digrigna i denti di fronte a una Nato che tentenna. Ma la tragedia moscovita apre un nuovo fronte interno
Il popolo kirghiso rende omaggio alle vittime dell'attacco terroristico al Crocus City Hall. ANSA EPA/IGOR KOVALENKO

Non erano mancati agli inizi del conflitto gli osservatori che avevano ammonito l’opinione pubblica internazionale: la Seconda guerra del Donbass – la prima era iniziata nel 2014, e s’era conclusa con l’inizio del nuovo conflitto, nel febbraio 2022 – non sarebbe stata una passeggiata, e anzi avrebbe impegnato le forze in campo per anni, con esito assai incerto. Pochi, all’inizio del conflitto militare, credevano a tale (facile) profezia. Seguendo gli umori evidenziati dal sistema mediatico, i supporter dei due campi, come in un match sportivo, esaltano o si deprimono a seconda dei successi più o meno evidenti di un campo sull’altro, che spesso e volentieri cercano un colpo ad effetto piuttosto che un’improbabile vittoria su largo raggio.

Dalla parte degli assalitori − mai dimenticare che la Russia ha aperto le ostilità e ne porta la responsabilità −, pur avendo usufruito di una serie di amnesie occidentali che, almeno in parte, coinvolgono la Nato nella responsabilità della guerra −, s’è vista l’esperienza e l’intelligenza strategica di Vladimir Putin, dittatore sanguinario che comunque gode dell’appoggio della maggioranza dei suoi concittadini. Putin ha saputo tenere il timone dritto anche nei momenti più neri della guerra, come la crisi di Prigozhin, come il passaggio di Svezia e Finlandia nel campo Nato, come l’attentato al ponte di Crimea o l’affondamento di varie navi russe nel Mar Nero, come la riconquista da parte ucraina di parte delle avanzate russe iniziali. Di fatto, Putin ha fatto fuori i suoi principali oppositori, eliminato una serie di dirigenti aziendali non completamente allineati alla sua strategia, ha voluto organizzare elezioni spettacolari e si dice abbia anche sconfitto un tumore. Attualmente, pare in una posizione di forza, anche perché l’industria bellica russa − con il supporto cinese, nordcoreano, iraniano e in parte indiano − ha permesso alla Russia di aggirare almeno parzialmente l’embargo delle produzioni ad alta tecnologia – produce a ritmo serrato missili e munizioni, che vengono in massima parte utilizzate nel quadrato ucraino.

Dalla parte degli ucraini la situazione appare decisamente più confusa, anche perché da questa parte del mondo la libertà di stampa più o meno esiste e quindi si vengono a sapere le tensioni del campo Nato: l’evidente disparità numerica dell’esercito ucraino rispetto a quello russo comincia a farsi sentire in modo acuto. Non bastano più gli aiuti militari da parte dei Paesi della Nato, degli Stati Uniti in particolare, per superare l’handicap. Oggi l’esercito ucraino è sulla difensiva, l’avanzata promessa nella primavera-estate 2023 non c’è stata, se non con parziali successi locali, come la riconquista di Kherson, anche perché i Paesi della Nato, Usa compresi, sono alla vigilia di numerose elezioni che non saranno manipolate come quelle russe e che potrebbero cambiare le carte in tavola in modo assai significativo se Donald Trump prendesse il potere. Zelensky, che da due anni è stato guida del popolo ucraino in cerca di libertà con i suoi maglioncini scuri dalle tonalità militari, ha svolto il suo lavoro con costanza, sostenuto dai servizi statunitensi, slalomando tra i tentativi russi di farlo fuori, come è recentemente accaduto a Kherson, facendosi paladino della difesa dei valori democratici europei contro la dittatura dispotica e sanguinaria dello zar di Mosca. Ora deve reinventarsi, deve cercare di stringere alleanze di ferro, intendendo con “ferro” le armi, affinché giungano effettivamente a destinazione, mentre la rispondenza europea non appare integra né convinta. Nel frattempo, si stringono sempre più le maglie dell’alleanza con i Paesi effettivamente confinanti con l’Ucraina.

Il morale delle truppe al fronte non deve essere dei migliori, né da una parte né dall’altra. Le cifre dei morti al fronte stanno lì ad ammonire i due campi: pare che ci si avvii verso la cifra di 300 mila militari uccisi, più o meno equamente divisi tra i due campi. Anche il morale delle popolazioni Russia e Ucraina non sembra essere senza falla, anche perché quando le guerre vanno per le lunghe, fatalmente il popolo cade in una certa depressione, sia per le mancanze materiali, sia per le mancanze nella sicurezza. Prova ne sia l’attentato di queste ore a Mosca, nella sala Crocus, che rischia di aprire di nuovo il sanguinosissimo fronte caucasico, che per essere domato, una dozzina di anni fa ha richiesto massicci interventi militari. Che farà ora Putin?

Di pace se ne parla poco, purtroppo, molto poco: i tentativi cinesi, sudafricano, saudita, turco e Vaticano hanno fatto un buco nell’acqua, se non fosse per qualche riuscito scambio di prigionieri, per il flusso del grano ucraino, per qualche concessione umanitaria. Gli animi sono ancora troppo esacerbati per riuscire a mettere le due parti attorno a un tavolo. La pace, però, attualmente conta due acerrimi nemici: i produttori e i trafficanti d’armi e la guerra tra Israele e Hamas. Se i primi gongolano e producono a ritmo serrato armi che poi devono essere impegnate sul terreno, la crisi, l’ennesima crisi israelo-palestinese, sta drenando non solo mezzi materiali, ma anche soprattutto risorse diplomatiche e umanitarie.

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