Libia, c’è speranza?

Tra stragi di migranti, pandemia e combattimenti sempre più confusi tra le diverse fazioni in campo, il Paese che fu di Gheddafi viaggia ancora a vista in cerca di una qualche forma di equilibrio politico e sociale
Migrante. (AP Photo/Javier Fergo)

Trenta migranti uccisi a colpi di arma da fuoco, 26 bengalesi e 4 africani, e altri 11 feriti. È accaduto in Libia mercoledì 27 maggio in un centro di detenzione clandestino non lontano da Gharyan, a sud di Tripoli. Federico Soda, capo della missione in Libia dell’Oim (Organizzazione Internazionale Migrazioni), conferma. Pare si sia trattato di una vendetta dei trafficanti di esseri umani, dopo un tentativo di rivolta da parte dei prigionieri in cui era morto un carceriere.

Nei primi 5 mesi di quest’anno quasi 4 mila migranti (fra cui molte donne e bambini) sono stati intercettati in mare dalla guardia costiera libica, spesso su segnalazione di qualcuno, e riportati indietro. I più fortunati di loro sono finiti nei centri di detenzione del governo di Tripoli (che godono di sovvenzionamenti Ue e italiani, e di un controllo Onu), dove le condizioni di vita non si possono però definire neppure umane. Al Centro governativo di Zintan, per esempio, in tempi di pandemia è difficile anche solo immaginare cosa sia il distanziamento sociale, dato che in una cella di 6 metri quadri dormono in 24, manca l’acqua e il sapone, e le mascherine sono un lusso sconosciuto. Un po’ di medicinali e di acqua da bere la portano i collaboratori di Medici senza frontiere, di più non possono fare.

Quasi nelle stesse ore della strage di Gharyan, il gup di Messina ha condannato tre trafficanti “libici” (in realtà un guineano e due egiziani), fermati a settembre mentre cercavano di passare inosservati fra altri profughi sbarcati in Sicilia. Le testimonianze di numerose vittime, che li hanno riconosciuti e identificati, hanno consentito al giudice di condannarli a 20 anni di reclusione ciascuno, per associazione a delinquere, tratta, violenza sessuale, omicidio e tortura.

In Sicilia sono in corso anche 2 indagini relative a dirottamenti di migranti verso le coste italiane ad opera delle forze armate maltesi. Il neo-premier maltese Robert Abela sta cercando in tutti i modi di arginare il problema dei migranti provenienti dalla Libia. Dopo aver tirato fuori Malta dalla missione Irini, annunciata dall’Ue e da mesi in stallo per mancanza di partecipanti, il leader maltese è volato a Tripoli per incontrare Fayez al-Sarraj, sperando forse di fare qualcosa per fermare gli sbarchi di migranti nelle isole maltesi. Il premier di Tripoli, che al momento ha ben altre gatte da pelare con la guerra in corso, gli ha detto in sostanza che non è facile, dato che i migranti clandestini presenti nel territorio libico controllato da Tripoli sono almeno 800 mila, oltre il 60% in più dell’intera popolazione maltese.

Un “problema”, quello dei migranti e della guerra libica, di cui l’Ue, in quanto tale, non riesce, o per altri versi non vuole, comprendere la portata e fare davvero qualcosa per inventare un’alternativa a questo incubo senza fine che si consuma nel cortile dietro casa.

Nel frattempo il conflitto libico mostra purtroppo un’escalation dopo il massiccio intervento turco accanto a Fayez al-Serraj e al Governo di accordo nazionale (Gna) di Tripoli, riconosciuto dall’Onu. Dal 27 novembre scorso, infatti, la Turchia ha smesso di sostenere Khalifa Haftar, l’ex uomo forte della Cirenaica a capo dell’esercito di Bengasi (Lna), ed ha firmato un accordo con al-Serraj e il governo di Tripoli. Un accordo non riconosciuto da nessuno, se non dai due contraenti, che attribuisce alla Turchia un corridoio attraverso il Mediterraneo per lo sfruttamento dei giacimenti di gas naturale. Oltre al gas, Ankara è molto interessata anche al petrolio libico ed a sostenere l’influenza dei Fratelli musulmani, ai quali anche al-Sarraj fa riferimento.

L’avanzata delle milizie di Tripoli sul terreno, con il sostegno decisivo di aerei e droni turchi e dei miliziani jihadisti filoturchi trasferiti a migliaia in Libia dalla zona contesa di Idlib, in Siria, ha rivelato la fragilità della composita armata di Haftar, i cui sostenitori (Eau, Arabia saudita ed Egitto, ma anche, più defilati, Russia e Francia) sembrano intenzionati, o in certo modo costretti per altre circostanze, a prendere sempre più le distanze se non a sganciarsi. Le pesanti difficoltà economiche, soprattutto in Turchia ma anche in Europa e in Russia, e la diffusione della pandemia apparentemente non sembrano riflettersi sull’infinito conflitto libico, almeno fino ad ora. Comunque si evolverà la situazione, il quadro continuerà a rimanere inquietante a lungo, se non interviene qualcosa o qualcuno in grado di offrire ai libici un po’ di speranza, da troppo tempo negata nel nome del potere, dell’interesse o dell’indifferenza.

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