Liberiamo il mondo dalla fame

cibo

«Per liberare il mondo dalla fame, non serve cibo in maggiore quantità ma bisogna lavorare molto per contrastare la povertà e aumentare i redditi soprattutto delle fasce più povere». Proprio mentre l’appena pubblicata Enciclica di Francesco tuona contro le disuguaglianze, arriva l'analisi in tema di malnutrizione e suddivisione delle risorse di Jakob Skoet, economista della Divisione dell'economia per lo sviluppo sociale della FAO. Un intervento concreto particolarmente di fatto ancorato alle prospettiva dell’Enciclica, portato nella prima sessione del XI Forum dell'Informazione cattolica per la Custodia del Creato, intitolato “Coltivare e custodire le risorse naturali per nutrire l'Umanità”, organizzato a L'Aquila dall'associazione Greenaccord Onlus in collaborazione con la Regione Abruzzo e il Comune dell'Aquila. Secondo Skoet, le politiche davvero efficaci contro la fame sono quelle che incentivano la «crescita economica inclusiva, soprattutto verso i più deboli». A dimostrarlo sono i Paesi che hanno introdotto sistemi di protezione sociali: «Chi ha intrapreso questa strada ha ottenuto risultati significativi sul fronte della lotta alla malnutrizione».

Ma queste scelte non sono state adottate con la stessa attenzione tra i Paesi e non a caso, spiega l'Onu, i risultati globali nella lotta alla fame non sono certo lusinghieri in numerose aree del pianeta. «Da un lato – prosegue Skoet – si può vantare una riduzione di 216 milioni di affamati nell'ultimo quarto di secolo (167 milioni solo nell'ultimo decennio)». Sono 795 milioni secondo i dati 2014, 780 dei quali nei Paesi in via di sviluppo e uno su due è residente in Asia orientale e meridionale. «Tuttavia l'obiettivo del Vertice mondiale dell'alimentazione di dimezzare la popolazione malnutrita è stato ampiamente mancato. Sarebbe stata necessaria una riduzione di 476 milioni». Per accelerare il trend e consolidarlo, Skoet sottolinea l'esigenza di investire anche su due altri fronti: l'agricoltura familiare («l'incremento di produttività dei piccoli agricoltori – spiega – genera redditi, migliora l'accesso ad alimenti di qualità, crea posti di lavoro per le fasce più povere e aumenta i salari della manodopera non qualificata») e i mercati rurali che, se efficacemente funzionanti, sono «importanti per la sicurezza alimentare e l'alimentazione, agevolando l'integrazione degli agricoltori familiari nell'economia».

Un'agricoltura dalle radici antiche ma estremamente proiettata al futuro, come quella “5.0” cui accenna Riccardo Valentini, analista del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici: «Il nuovo approccio è necessario per creare una rete fitta di produttori che cooperano per la sfida della produzione globale, utilizzando tecnologie utili a ridurre gli impatti nocivi». Ma la lotta alla fame è anche connessa con un cambio di stili di vita di chi ha cibo in abbondanza e spesso lo sperpera senza riflettere. Un'abitudine tanto nociva quanto tristemente quotidiana nel Nord del mondo, con riflessi ecologici oltre che morali: «Lo spreco di cibo – osserva Valentini – non è solo una questione etica , ma c'è anche un problema ambientale, perché per produrre quel cibo sono state utilizzati acqua, fertilizzanti, pesticidi».

Ma custodire le risorse naturali in modo virtuoso è anche una questione del tipo di pietanze che si decide di mettere in tavola. In questo senso, gli investimenti per una riscoperta della dieta mediterranea sono essenziali anche un punto di vista sanitario, oltre che ambientale. A evidenziare i vantaggi della dieta mediterranea è Giovanni de Gaetano, ricercatore dell'Istituto neurologico Neuromed. «Un'alta adesione a questo regime alimentare – spiega al pubblico presente – dimezza il tasso di mortalità in soggetti diabetici. E il rischio di problemi cardiovascolari scende di circa il 40 per cento». Dati che, più in generale, evidenziano un miglioramento della qualità della vita.

La crisi economica tuttavia dimostra di incidere in modo negativo sul rispetto dei dettami della dieta mediterranea da parte delle famiglie italiane. «In appena cinque anni si è passati dal 33,7 per cento di adesione registrato nel 2005 al 17,3 per cento del 2010». Un trend che riguarda tutte le fasce d'età. La controprova di questi dati si ha incrociando il rispetto dell'alimentazione italiana tradizionale con le fasce di reddito: «Più si ha disponibilità economica e più si mangiano ingredienti sani. L'inizio della crisi economica nel 2007 ha divaricato le disuguaglianze e rischia di avere conseguenze a lungo termine sulla salute degli Italiani, soprattutto nelle fasce più deboli». Un problema serio da più punti di vista: sanitario ma anche per il tessuto economico nazionale perché finisce per essere un danno per i produttori agricoli locali.

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