Libano, speranze in uno Stato che non c’è più

La situazione economica e politica in Libano appare sempre grave e compromessa. Ci sono però anche alcuni segni di speranza. Nei giorni scorsi sono venuti alla ribalta internazionale due esempi significativi: quelli di un vescovo maronita e di un imprenditore musulmano
Libano
Beirut, Libano, 22 marzo 2023: uno scontro tra manifestanti e polizia antisommossa durante una protesta per chiedere stipendi migliori, tra la rabbia diffusa per le dure condizioni economiche nel Paese. (AP Photo/Hassan Ammar; Associated Press)

Venerdì 28 aprile, a Milano, ha preso il via la prima edizione del “Premio Fuoco dentro – donne e uomini che cambiano il mondo”, istituito dall’Arcidiocesi di Milano e dall’associazione di promozione sociale Elikya. Premiati Margaret Karram, don Virginio Colmegna, Daniele Mencarelli, l’onlus “L’albero della macedonia”. E il vescovo di Batroun, nel nord del Libano, monsignor Mounir Khairallah.

Un vescovo e uomo di speranza in un Libano ormai sprofondato nel completo fallimento dello Stato e nell’immobilismo di una classe politica incapace di immaginare prospettive. Un Paese bloccato dalla corruzione e dai veti incrociati di fazioni che si pretendono collegate a diverse confessioni religiose ed a poteri regionali e internazionali. Tanto che ciò che resta della Repubblica libanese sopravvive senza un presidente della Repubblica e con un Governo dimissionario che non riesce a gestire neppure l’ordinario, se pure si può parlare di ordinario in questi frangenti. E nessuno riesce, può o vuole prendere la patata bollente di cercare la difficile strada per varare un nuovo Esecutivo o eleggere un presidente, tanto meno per cambiare le leggi confessionali che da tempo bloccano più che favorire la democrazia libanese.

La situazione del Libano è sempre più precipitata dopo l’esplosione nei silos del porto di Beirut, il 4 agosto 2020, che ha ucciso 220 persone e ne ha ferite più o meno gravemente circa 7 mila. Ad oggi nessun giudice è stato in grado di istruire un processo sulle cause e sui responsabili, a causa dei veti incrociati del mondo politico. E il porto è ancora là, distrutto quasi come l’esplosione di 3 anni fa lo ha lasciato.

Intanto la moneta, la lira libanese, è sprofondata con tutta l’economia: oggi ci vogliono quasi 100 mila lire per un dollaro (ma lo scambio è arrivato non più di 2 mesi fa a 150 mila lire), naturalmente al mercato nero (che poi è solo formalmente clandestino). Vale a dire, solo per fare un esempio, che un litro di latte oggi costa intorno a 200 mila lire, quando solo nel 2018-19 costava meno di 3 mila. Gli stipendi, per i pochi che li ricevono, sono invece di fatto rimasti quelli di prima. L’unica prospettiva per sopravvivere è per molti, soprattutto professionisti e soprattutto giovani, quella di emigrare e poi cercare di sostenere con un lavoro dall’estero i famigliari rimasti. E i libanesi nel trovare o inventarsi un lavoro all’estero sono da sempre straordinari, fin dal tempo dei fenici.

Nell’immobilismo completo dello Stato, subito dopo l’esplosione al porto di Beirut, anche monsignor Khairallah (insieme a molte realtà della società civile ed ecclesiale) aveva chiamato a raccolta i giovani della sua città per portare aiuto alle persone colpite sgombrando le strade dalle macerie e soccorrendo famiglie in forte difficoltà. In un articolo su Avvenire del 13 settembre 2020, il vescovo di Batroun affermava: «La società civile libanese è viva e vitale, pronta a rimboccarsi le maniche come hanno testimoniato migliaia di giovani che per giorni hanno regalato le loro energie per aiutare a sanare le ferite di Beirut. Come è già accaduto in passato, sapremo risollevarci e ripartire… Continuo a credere che il Libano è un messaggio di libertà e di convivenza. Ma questo non può fare dimenticare le pesanti responsabilità di quanti detengono il potere e che da troppi anni portano la responsabilità della crisi in cui versa il mio amato Paese. Queste persone devono fare un serio esame di coscienza, ammettere le loro responsabilità, farsi da parte e restituire ciò che hanno sottratto al popolo».

Da un’altra prospettiva, in questi giorni (agenziastampaitalia.it del 28 aprile 2023) un altro libanese che sta dicendo cose scomode ma degne di attenzione e di possibile speranza, è stato oggetto di un mandato di cattura in contumacia da parte di autorità libanesi controllate, secondo molti osservatori, da poteri forti extra-istituzionali. Si tratta di Omar Harfouch, un imprenditore di Tripoli, musulmano sunnita, che nel 2022 ha fondato un nuovo partito centrista e liberale: “Terza Repubblica Libanese”. Nel marzo scorso, di passaggio a Roma, ad un giornalista di notiziegeopoliche.net, Harfouch ha detto:

«Oggi l’assenza di un presidente, di un primo ministro e di un Governo effettivo non garantisce sicurezza, stabilità e futuro al Paese. I candidati si nascondono e non vogliono che si venga a sapere delle loro intenzioni, in quanto potrebbero essere soggetti a minacce, come accade a me. Chi cerca di portare il cambiamento in Libano subisce una campagna di diffamazione e, quando questo non basta, si subisce un attentato, come è stato nel mio caso in cui sono state coinvolte anche mia moglie e mia figlia. Ma le intimidazioni non mi fermano perché lotto per mia figlia e per i figli del Libano, per tutti coloro che vogliono un Paese libero. Un ulteriore problema che affligge il Libano è rappresentato dalla disuguaglianza presente nel Paese. Sono nato musulmano sunnita, cresciuto dai cristiani e non posso aspirare a un lavoro secondo le mie competenze intellettuali in quanto non sono cristiano maronita. Ciò significa che io, Omar Harfouch, non ho il diritto di poter essere presidente del Libano… Sono maledetto dalla mia nascita perché non sono cristiano. Lo stesso principio vale se si aspira a diventare ministro. Questa narrazione qui a Roma viene percepita come pura fantascienza. Nel mio Paese è la pura realtà».

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