L’evasione fiscale si può battere

Ma bisogna volerlo davvero. Ben 110 miliardi di euro secondo l’Istat in un Paese dove paga il ceto medio

Guerra senza quartiere all’evasione fiscale, ha promesso il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Giusto, giustissimo. C’è un solo “ma”: e cioè il fatto che questo è stato ripetuto talmente tante volte da questo o quel governo, che è diventato difficile crederci. La stima dell’Istat parla dell’enorme cifra di 110 miliardi, ma Vincenzo Visco, ex ministro delle Finanze e forse il maggior esperto italiano di questioni fiscali, dice che sono almeno 130. Questa cifra è più di quanto si spende per l’intero sistema sanitario, e a proiettarla nel tempo vengono le vertigini: in 10 anni farebbe quasi metà del Pil.

Ma il problema non è solo delle mancate entrate. Se non si è sicuri del reddito dei cittadini, qualsiasi provvedimento rischia di appesantire ancora il prelievo su chi già paga e offrire esenzioni o assegni a chi è povero solo per il fisco. La nostra pressione fiscale (tasse e contributi in rapporto al Pil) è più o meno simile a quella dei Paesi comparabili: se però la misurassimo tenendo conto dell’evasione, schizzerebbe in su di molti punti e probabilmente ci proietterebbe al primo posto.

Dunque il problema vero non è ridurre le tasse, come ormai quasi tutti i partiti vanno proclamando, ma farle pagare a chi evade e redistribuirne il peso in modo equo. Su chi grava questo peso eccessivo? Uno studio di Visco ci aiuta ad approfondire il problema (Promemoria per una riforma fiscale, in Politica economica, vol XXXV(1), apr. 2019). «Se si considera il gettito Irpef derivante dai redditi di lavoro (il 93-94% del totale), delle addizionali comunali e regionali e dei contributi sociali da un lato, e l’Irpeg, l’Irap, le cedolari sugli affitti e sui redditi da capitale e l’Imu dall’altro, si può verificare come il primo gruppo rappresenti circa il 18% del Pil, ben più del secondo gruppo di imposte: 6%, nonostante i redditi di riferimento siano pressoché uguali come quota». Il fatto è, osserva Visco, che più o meno tutti i sistemi fiscali dei Paesi occidentali sono stati disegnati dopo la Seconda guerra mondiale, e da allora il mondo è cambiato completamente. All’epoca i redditi di lavoro, e in particolare di lavoro dipendente, erano prevalenti, e in tutti i Paesi rappresentavano una quota del Pil del 60-65%. Oggi sono a meno del 50%, e quelli dei dipendenti circa il 40. È questa la quota anche in Italia e, se si aggiungono i redditi di lavoro degli indipendenti, si arriva al 47: ciò significa che «il 53% rimanente è appannaggio di profitti, interessi, rendite, royalties, ecc.», che tutte insieme, pagano un terzo dei redditi da lavoro. Inoltre in tutti i Paesi avanzati, dall’inizio degli anni ’80, quando è cominciata l’egemonia del neoliberismo, la progressività si è fortemente ridotta, specie per le aliquote più alte. In Italia – ricorda Visco – fino al 1983 gli scaglioni Irpef erano 32, e andavano dal 10 al 72%; oggi sono solo 5 e vanno dal 23 al 43%.

«Le aliquote iniziali sono state fortemente aumentate di pari passo con la riduzione di quelle più alte con l’effetto, sempre trascurato, di concentrare il prelievo sui contribuenti medi. Quelli più ricchi sono stati ulteriormente gratificati dal trattamento favorevole riservato alle stock option, ai bonus aziendali, ai guadagni di capitale. L’aumento di imposizione  sui ceti medi è risultato di gran lunga superiore al risparmio d’imposta per i più ricchi, il cui guadagno individuale è stato tuttavia molto consistente».

Ma non è successo solo questo. Quando vengono disegnati i sistemi fiscali, hanno una loro coerenza, ma col tempo i governi prendono provvedimenti senza una visione d’insieme e li rendono sempre più confusi. Il sistema che in Italia fu introdotto all’inizio degli anni ’70 subì subito effetti distorsivi per l’inflazione che all’epoca infuriava, e infine «uscì completamente distrutto dalla manovra del governo Amato del 1992». Fu una manovra attuata sotto la pressione della crisi della lira e di importo elevatissimo: il governo rastrellò soldi ovunque, compreso il famigerato prelievo forzoso sui conti correnti. Nel ’96- ’97 Visco, allora ministro, attuò un’ampia riforma, ma i governi successivi, da quelli di Berlusconi a Renzi, avrebbero di nuovo reso il sistema confuso e poco razionale. Ma oggi è possibile sconfiggere l’evasione? Tutti gli esperti sono d’accordo: sarebbe possibilissimo, gli strumenti ormai ci sono tutti. Qualche ostacolo, paradossalmente, viene dal Garante della privacy, che ha messo il veto all’utilizzo di alcuni dati personali: negli altri Paesi sarebbe inconcepibile. Ma l’ostacolo più grosso riguarda l’ingrediente più indispensabile: la volontà politica di farlo davvero. Che non manca solo in Italia, ma nelle classi dirigenti di tutto il mondo. In Europa continuano ad esistere veri e propri paradisi fiscali, dal Lussemburgo all’Irlanda, dall’isola inglese di Man all’Olanda, che non a caso viene scelta come sede legale da molte multinazionali. Persino negli Stati Uniti, dove evadere il fisco è un reato gravissimo e la condanna al carcere è frequente, sembra che per le imprese valga una morale diversa: anche lì c’è un “paradiso”, lo Stato del Delaware. Così, quando l’Italia propose di adottare una norma europea che avrebbe controllato l’elusione delle grandi imprese, Olanda, Irlanda e Lussemburgo fecero le barricate, e di quelle norme finora non si è più parlato.

Se però far pagare il giusto alle multinazionali non dipende solo da noi, per l’evasione interna invece sì. Solo dallo scandalo dell’Iva, dove è un terzo del totale, più di 35 miliardi, i 3,3 miliardi di recupero previsti dalla manovra di quest’anno potrebbero venir fuori in buona parte, se si adotteranno alcuni accorgimenti tecnici complicati da spiegare, ma ormai ben definiti. Conte ha dichiarato battaglia: ora il governo dovrà dimostrare che non sono solo parole.

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