L’Europa in corsia

Èdonna, di età compresa tra i 31 e i 40 anni, laureata e fortemente motivata. Questo l’identikit dell’infermiere nell’Europa di oggi. Lo rivela una ricerca della Federazione nazionale collegi infermieri (Ipasvi), presentata di recente a Roma nel corso del XIV congresso nazionale della professione, dal tema L’infermieristica italiana in Europa, incontro e confronto di obiettivi e valori. In Irlanda e Croazia il 92 per cento degli infermieri è donna, in Grecia e Regno Unito il 90 per cento, in Francia l’87 per cento, in Spagna l’83 per cento e in Italia il 79 per cento. Relativamente bassa l’età media: in Spagna, Italia, Francia, Grecia e Croazia oltre il 55 per cento della categoria ha un’età compresa tra i 18 e i 40 anni. Solo in Irlanda gli infermieri ultra 40enni rappresentano il 53 per cento del totale. L’infermiere di oggi ha un elevato grado d’istruzione: a garantire l’omogeneità dei percorsi formativi in termini di contenuti e di ore di studio ci ha pensato infatti l’Accordo di Strasburgo del 1973. Attualmente, infatti, alla professione si accede attraverso un corso base, spesso universitario, della durata minima di tre anni, a cui può seguire la laurea specialistica. C’è poi la possibilità di conseguire master e dottorati qualora si voglia fare far carriera e occupare posti chiave nella sanità. E per quei paesi che sono entrati a far parte dell’Unione coi recenti allargamenti e che non hanno recepito l’Accordo di Strasburgo? Per continuare a mantenere alto ed omogeneo il livello delle prestazioni offerte dagli infermieri in tutti i paesi dell’attuale Unione, ci si è orientati a puntare sui profili di competenza, onde evitare che professionisti stranieri con minori competenze lavorino nel nostro paese con le stesse responsabilità degli infermieri italiani. Uno dei problemi è quello della conoscenza linguistica. Un problema scottante – afferma Annalisa Silvestro, presidente dell’Ipasvi – perché alla base della professione c’è la capacità di costruire una relazione: l’infermiere deve parlare col paziente, capirne i bisogni, confrontarsi con il medico e con i propri collaboratori. E come può fare tutte queste cose se non parla e scrive la lingua del paese che lo ha adottato? Attualmente in Italia l’esame di italiano è previsto solo per gli infermieri extracomunitari, mentre per quelli dell’Unione europea non è prevista alcun tipo di verifica. La circolazione degli infermieri su territorio non più solo nazionale se può essere dunque una risorsa interessante come lo è ogni scambio professionale e culturale, porta comunque con sé anche più di una perplessità. Abbiamo la necessità di investire sulla professione – afferma Theodoros Koutroubas, direttore dell’European council of the liberal professions (Ceplis) -, di valorizzarla, di rendere appetibile la carriera in ognuno degli stati membri anche puntando a riconoscimenti economici più adeguati alla formazione e alle conseguenti responsabilità lavorative oggi assunte dalla categoria. Il solo mezzo di cui disponiamo per aumentare questa influenza è la costituzione di un fronte comune e unito a livello della Comunità europea . In effetti il problema tocca anche il nostro paese. A sottolinearlo è la presidente Ipasvi: Il quadro normativo che regolamenta la formazione e l’esercizio professionale degli infermieri italiani concretizzatosi nell’ultimo decennio, è tra i più avanzati non solo in Europa, ma anche nel mondo. Il che ci pone davanti ad un nuovo problema: all’elevata specializzazione non è corrisposto un adeguato riconoscimento in termini contrattuali, né in Italia, né all’estero. Tant’è che la scarsa valorizzazione data in passato alla professione ha allontanato per alcune generazioni i giovani da questa scelta lavorativa con il risultato che nel nostro paese il rapporto infermieri-abitanti è molto più basso rispetto alla media europea stimata dall’Ocse, che si attesta attorno a 8,2 infermieri ogni 1000 cittadini, col risultato che occupiamo, con il 5,4 il penultimo posto in Europa. Non solo: dal 1993 ad oggi il numero degli infermieri per persona in Italia risulta piuttosto stabile, mentre negli altri paesi è, seppur leggermente, cresciuto. Per contro, siamo il paese con il più elevato rapporto medici-abitanti, con 4 dottori ogni 1000 cittadini. In quanto all’aspetto della formazione degli infermieri nel nostro paese, secondo la Silvestro, ci troviamo di fronte ad una categoria superspecializzata ma poco valorizzata. Per esempio, il percorso formativo prevede anche la possibilità di frequentare un master. Ma poi, che risvolti lavorativi si delineano? Oggi la scelta di frequentare i corsi, con tutti gli impegni che ne derivano, ricade prevalentemente sul singolo professionista, invece che scaturire dal rapporto tra le università e il mondo dell’impresa, delle aziende pubbliche e del territorio. Attualmente il vero scoglio da superare è la valorizzazione dei professionisti che hanno già frequentato un master. E’ disincentivante impegnarsi in complessi iter formativi, rientrare nel sistema con più alta qualificazione, ma poi non avere la possibilità di implementare l’attività quotidiana con le conoscenze acquisite. Sarebbe buona cosa che la legge attualmente in discussione al Parlamento, che prevede un percorso di carriera legato al possesso dei titoli, venisse rapidamente approvata. Capillarmente presente in ogni settore della società, l’infermiere ha una grande mobilità lavorativa tra i vari paesi dell’Unione europea e stando a contatto con milioni di persone, interpretandone i bisogni e rispettandone le diversità, può contribuire in modo sempre più determinante alle politiche della salute e dell’integrazione. Ed è per questo che da parte dell’Ipasvi viene chiesto alle istituzioni un atto di coraggio. Non ci sono solo i medici nella sanità, affermano. Gli infermieri chiedono di contare di più nell’organizzazione del lavoro con un ruolo attivo nella gestione dei servizi assistenziali a livello nazionale e locale; vogliono che sia resa possibile a tutti una formazione post laurea di qualità per rispondere meglio alle esigenze delle nuove malattie di una popolazione che invecchia più di prima; chiedono di poter far carriera e di essere più adeguatamente retribuiti. Anche per non dover ricorrere, come spesso succede, alla doppia opzione lavorativa: quella dentro l’azienda ospedaliera e quella della libera professione esercitata magari all’interno di una cooperativa sociale o svolta autonomamente. Coi conseguenti carichi di lavoro, a spese del malato, di chi ha due impieghi. Ma non è solo la questione economica o la possibilità di far carriera che occupano la mente e animano l’impegno dell’Ipasvi, dei suoi dirigenti e dei suoi tesserati. C’è tutto un percorso storico e una prospettiva di qualità della professione, il più delle volte vissuta come un vero e proprio servizio a quella parte di umanità sofferente che interpella prima di tutto la coscienza dei singoli operatori. Persone spesso di grande cuore e professionisti competenti. In più di cinquemila presenti a Roma hanno ribadito tra l’altro la scelta del prendersi cura e la consapevolezza di voler e dover essere sempre all’altezza dei nostri alti compiti sia sul piano umano che su quello professionale. ESPERTI IN UMANITÀ Non sarebbe male pensare che un mondo sanitario orientato alla qualità possa diventare, come lo è sempre stato, sin dai tempi antichi, un potente induttore di comportamenti virtuosi da parte dell’insieme della società umana. E questa speranza, penso, sia all’origine delle vostre attività: se vi sforzate, tutti i giorni, di fare bene le cose giuste per la prima volta; di avere al centro dei vostri interessi la persona umana nel senso più ampio del termine; se provate soprattutto ad ascoltare chi ne ha bisogno; se cercate di progettare assieme a chi collabora con voi gli interventi sanitari che vi aspettano per mandato; e se, alla fine della giornata, vi chiedete implicitamente com’è andata?; e infine se, alla fine del mese, l’insieme di queste domande sono condensate in un report che discutete con le persone che lavorano con voi e, forse, con i cittadini, sani o malati, che passate il tempo a servire, per vedere se potete fare meglio, ancora meglio. (Da uno scritto del presidente della Società italiana per la qualità dell’assistenza sanitaria).

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