L’Europa di fronte al bivio del Kosovo

Il Kosovo è la cruna dell'ago attraverso la quale è obbligato a passare il sottile filo della diplomazia europea per tessere una tela che avvolga il vecchio continente in un progetto di pace e riconciliazione. Intervista a Paolo Bergamaschi
Kosovo KFOR soldati (AP Photo/Bojan Slavkovic)

Il piccolo stato del Kosovo, grande come l’Abruzzo, è notoriamente uno dei potenziali inneschi di ulteriori focolai di guerra in Europa, come dimostrano gli scontri in corso nel nord del Paese a forte maggioranza serba dove le autorità kosovare hanno insediato dei sindaci albanesi eletti con percentuali irrisorie (intorno al 3,5% degli aventi diritto).

Quest’area montuosa balcanica è un ulteriore fronte che, come dicono le fonti diplomatiche, non ci si può permettere di aprire con la guerra in corso in Ucraina, se si vuole scongiurare l’irreparabile. Anche perché in Kosovo si trova Camp Bondsteel, una tra basi militari statunitensi più grandi in Europa che è collocata nei confini di uno stato proclamatosi indipendente ma riconosciuto solo da circa il 50% degli stati che fanno parte dell’Onu.

Abbiamo sentito il parere di Paolo Bergamaschi, autore di un recentissimo testo pubblicato da Infinito editore intitolato “Kosovo – Tra esistenza, resistenza e coesistenza.  Bergamaschi è autore di numerosi saggi, inchieste e articoli che sono il frutto della sua lunga esperienza sul campo. Al suo attivo anche l’attività svolta per 24 anni come consigliere politico presso la Commissione Esteri del Parlamento europeo.

Cosa rappresenta il Kosovo nel quadro geopolitico attuale?
Il Kosovo è un Paese di fatto indipendente dal 1999 che bussa alla porta della comunità internazionale da cui è ancora escluso. Quando negli anni novanta mi avvicinai alla crisi jugoslava la frase che sentivo spesso ripetere dai miei interlocutori balcanici era che l’origine della disintegrazione della Jugoslavia risaliva alla decisione di Slobodan Milosevic, l’uomo forte di Belgrado, di revocare nel 1989 lo statuto di autonomia all’ex-provincia serba. “Tutto è cominciato in Kosovo” mi raccontavano in Slovenia, Croazia, Bosnia e Macedonia e tutto, forse, si concluderà con la soluzione della questione kosovara. Il Kosovo è la cruna dell’ago attraverso la quale è obbligato a passare il sottile filo della diplomazia europea per tessere una tela che avvolga il vecchio continente in un progetto di pace, riconciliazione, superamento degli egoismi nazionali e cooperazione duratura e sostenibile. Il futuro dell’Europa si gioca anche o soprattutto a Priština. Dalla capitale kosovara può ripartire il treno europeo che era finito su un binario morto.

Quale è stato, finora, a suo parere, il ruolo della Nato? Cosa resta di incompiuto?
Il controverso intervento della Nato nel 1999 ha comunque messo fine alla lunga catena di massacri ai danni della popolazione civile perpetrati dai soldati di Milosevic e dalle bande paramilitari serbe. Oggi la Nato fornisce l’ossatura della missione Kfor delle Nazioni Unite (3800 soldati circa di cui 900 italiani) che ha il compito di garantire e sostenere la stabilità nella ex provincia serba. Non è possibile parlare di pace, però, se non ci sono gesti concreti di riconciliazione. Purtroppo né dalla parte kosovara e tantomeno da quella serba ci sono sforzi in questa direzione.

Cosa dovrebbe fare l’Ue per operare una politica efficace di pace?
Mi auguro che il Kosovo non venga abbandonato a se stesso. Per troppo tempo questo Paese è stato dimenticato, trascurato, rinchiuso in un ghetto diplomatico e politico. Basti pensare che i cittadini kosovari sono gli unici nei Balcani che hanno ancora bisogno di un visto per entrare nello spazio Schengen (NB dall’anno prossimo questa barriera dovrebbe finalmente cadere). La questione kosovara deve rimanere al centro dell’azione europea. L’indipendenza del Kosovo è un fatto irreversibile; ritardare la sua inclusione nella comunità internazionale non fa che mantenere aperto un focolaio di crisi pronto a riattizzarsi o, meglio, ad essere riattizzato in qualsiasi momento. Il processo di allargamento non può trascinarsi all’infinito; la prospettiva di adesione all’Ue ha bisogno di scadenze precise. Oltre alla diplomazia, tuttavia, c’è bisogno di una spinta decisa dal basso da parte della società civile europea con il movimento per la pace in testa per riannodare il filo del dialogo interculturale, interreligioso e interetnico.

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