Una lettera su un centenario mancato

La “grande guerra” considerata nella sua attualità nella nostra società che non ha fatto ancora i conti con quella “grande follia”
AP Photo/Gregorio Borgia

Il 4 novembre ricorre il centesimo anno dalla fine della prima guerra mondiale e si sente nel sottofondo il rumore della retorica che esalta quella strage, inutile come tutti gli altri spargimenti di sangue, chiamandola “grande guerra”, non per le sue dimensioni ma per aver tirato fuori dai soldati i grandi valori del popolo italiano.

Una “grande follia”, non solo per i 16 milioni di morti e 20 milioni di feriti, oltre la miseria e le malattie, come la spagnola, che fecero strage di civili indeboliti da anni di guerra.

Fu una follia per come scoppiò. Il 30 luglio 1914 lo Stato maggiore generale tedesco fece pressione sul Governo, fino a far pubblicare su un giornale di Berlino del pomeriggio una “fake news” in cui annunciava una mobilitazione generale dell’esercito per mettere il Governo di fronte al fatto compiuto. Un comportamento che oscilla tra il colpo di stato e l’alto tradimento. All’epoca, gli eserciti di leva necessitavano del decreto di mobilitazione, che in Germania significava mobilitare 11 mila treni per portare le truppe al fronte: una operazione talmente onerosa da essere irreversibile: mobilitazione significava guerra. Il giornale fu sequestrato ma von Moltke, il capo di Stato maggiore tedesco, non si arrese ed esortò il collega austriaco Conrad von Hötzendorf a mobilitare il suo esercito. I Governi e la maggioranza dell’opinione pubblica di tutta Europa erano contrari alla guerra, i generali no.

Nel 2014 lo storico Alessandro Barbero ha raccontato i giorni prima della di dichiarazione della guerra in modo molto dettagliato.

La sera del 30 luglio sembra una commedia. Il governo tedesco si riunisce a casa del cancelliere von Bethmann-Hollweg per discutere della dichiarazione di guerra alla Russia in risposta alla mobilitazione dell’esercito dello Zar. Il ministro della Marina si oppone alla dichiarazione di guerra ma gli rispondono che i tecnici del ministero degli Esteri hanno detto che “questa è la prassi”: dopo l’ultimatum inascoltato alla Russia di sospendere la mobilitazione, il passo successivo era obbligatoriamente la dichiarazione di guerra e la mobilitazione.

Il piano d’attacco tedesco era composto da due fasi: la prima fase prevedeva l’attacco alla Francia passando per il Belgio, neutrale a ogni guerra e strategico per l’Inghilterra; la seconda fase prevedeva il trasferimento delle truppe sul fronte Russo, più lento nel rendere operativo l’esercito. Con questi dettagli di strategia militare si capisce la commedia che si è consumata. Il primo agosto l’Inghilterra, per motivi economici, per la paura di vedere occupato il Belgio e per il suo disinteresse agli affari continentali, invia un messaggio al Kaiser e al Cancelliere von Bethmann-Hollweg per un accordo di non belligeranza: se la Germania non attacca la Francia, la Repubblica transalpina e l’Inghilterra sarebbero rimaste fuori dalla guerra.

Ma ormai l’ordine di mobilitazione, scattato in automatico in seguito all’ultimatum alla Russia, era stato dato e l’immensa macchina da guerra tedesca era già all’opera.

Quando il Kaiser e il Cancelliere chiamarono il generale von Moltke per cambiare gli ordini di mobilitazione, che forse avrebbe scongiurato l’inizio della guerra, quest’ultimo, appena venne informato, scoppia a piangere e dichiara che l’ordine di mobilitazione non si può cambiare. Dopotutto, sembrerebbe che von Moltke fosse lì più perché nipote dell’omonimo zio,“il vincitore di tutte le guerre”, che per meriti personali.

Il primo passo fu l’invasione del Lussemburgo, da parte dell’esercito tedesco, per poi lanciare l’ultimatum al Belgio. Una dichiarazione di guerra piena di bugie e menzogne, ma le forme andavano rispettate: ultimatum e poi invasione.

Barbero fa il parallelismo con Colin Powell che mostra all’opinione pubblica la prova (finta) delle armi batteriologiche di Saddam Hussein.

Alla base delle guerre c’è sempre uno strato di menzogne.

Questo parallelismo non è un caso: concetti come “la guerra giusta” e “la bella morte”, ancora tutt’oggi presenti nella nostra cultura, si radicano nella retorica della prima guerra mondiale.

Rivedere il mito della guerra fondato sulla retorica della prima guerra mondiale poteva essere uno spunto per questo centenario. Rivedere i nomi delle vie delle piazze nostre città, a volte intitolate a persone esaltate per aver ammazzato molti “nemici”, sarebbe stato un gesto forte di rottura con quella cultura, come ha proposto Giorgio Giannini del Centro Studi Difesa Civile. Altro spunto sarebbe potuto essere studiare il peso dell’apparato militar-industriale sulle scelte degli stati maggiori degli stati belligeranti: i generali hanno agito in totale autonomia?

Infine rimane la ferita scoperta di un numero imprecisato, perché manca una seria ricerca storica, di soldati fucilati dai propri comandanti per motivi futili o perché si sono opposti a ordini contrari alla ragione, come l’assalto all’arma bianca contro le mitragliatrici austriache in pieno giorno; oppure soldati fucilati per la follia di ufficiali come il generale Graziani, uno di questi reo di tenere il sigaro in bocca.

Queste persone sono considerate ancora oggi criminali ed una legge che doveva servire a riabilitarli è stata respinta dal Senato lo scorso anno. Segno che la cultura e la retorica della guerra della prima guerra mondiale ancora impregna la nostra del nuovo millennio e che abbiamo mancato questo centenario per fare i conti con la nostra Storia.

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