Lettera ai nostri figli

Come parlare ai bambini dell'emergenza Coronavirus che ci costringe a stare in casa o ci fa ammalare? Come fargli vedere le opportunità che si nascondono dietro la paura? Vi proponiamo le parole che il giornalista, scrittore ed inviato Rai Nico Piro ha scritto sul suo blog.

Sono un papà fortunato: ho due figli bellissimi. Mio figlio ha sette anni: una volta a settimana va a calcio, due a karate. Mia figlia ha quattro anni: una volta a settimana va a danza, una fa teatro, il sabato in piscina. Agende da manager – vero – ma si divertono tanto. Grazie alla mamma (che è americana), parlano due lingue e guardano i cartoni in entrambi gli idiomi (il dialetto salernitano lo stanno imparando come terza opzione). Assieme alla lettura (almeno per il più grande, la piccola ci prova ma a volte impugna i libri sotto sopra), la televisione è l’unica cosa che l’epidemia non ha cambiato nelle loro vite.

Ho provato a crescere i miei figli “esponendoli” sempre al nuovo, con cautela ma nella diversità. Ho provato a dare loro coraggio in una società dove i vili sembra vincere sempre. Ho cercato di evitare che incubassero le paure e le ansie dei genitori, che guardassero alle novità di ogni giorno come ad un’occasione. Sono bimbi che non hanno paura facilmente nemmeno oggi che tutta la loro “routine” è stata cancellata.

I miei figli sono bambini fortunati, ma da qualche giorno – all’apparenza – hanno perso tutto: lo scuola bus al mattino non passa più; la passeggiatina fino all’asilo è abolita; niente karate né danza; a pallone possiamo giocare solo in corridoio che “se rompete qualcosa poi fate i conti con me” (le grida della mamma). Andare al parco giochi è roba rischiosa; incontrare gli amici è troppo pericoloso; mettersi le mani (o la matita) in bocca, innesca la detonazione delle grida domestiche con successiva protesta perchè “sempre con noi ce l’avete!” (adolescenza precoce!).

bambini-giocano-con-il-pongo-foto-di-nico-piroNello spaesamento della perdita di ogni certezza, i bambini reagiscono illudendosi di essere in una mezza festa: stanno più tempo a casa, guardano più tv, possono alzarsi da tavola più facilmente di quanto facciano dal banco in classe. Ma, in realtà, già si chiedono che cosa stia succedendo e perchè le loro vite sono sottosopra. Due settimane fa – così ebbi già modo di misurare il fallimento dell’informazione italiana – mia figlia dopo un colpo di tosse mi chiese se, secondo me, lei avesse il corona virus. I bambini sanno molte più cose di quelle che vorrebbero farci credere.

Ho sottoposto i miei figli a tanti privazioni per via del mio lavoro e delle assenze che mi impone: quando vede che apro la valigia per riempirla, la piccolina ci si siede dentro come fosse un blocco stradale. Il grandicello mi chiede se io torni a Calais “dove nessuno ha una casa” per aiutarli a costruirsene una. Da quando sono stato in mezzo all’epidemia di Ebola, non smette di chiedermi perchè in Africa ci siano tante malattie. Dell’Afghanistan vuole sempre sapere perchè ci sia la guerra e soprattuto chi l’abbia cominciata. Quando mi vede con l’elmetto e il giubbotto anti-proiettile non si riesce a spiegarsi perchè io non abbia un fucile d’assalto al collo o una spada laser. Per fortuna, ho una brava moglie e una grande mamma che prova a spiegare loro che papà non c’è perchè è fuori a lavorare. Sarà meno “romantico” del lavoro di un inviato, ma scommetto sia lo stesso per i papà metalmeccanici pendolari di Melfi o per quelli che attraversano l’Italia sui Flix Bus inseguendo una cattedra di “ruolo”.

Stasera ci siamo parlati, io e i miei figli. Sono convinto che ai bambini si possa raccontare tutto purché si usi un linguaggio gentile e si evitino le bugie. Ho chiesto loro se fossero tristi per tutto quello che stava accadendo. Abbiamo chiacchierato un po’ sin quando non gli ho detto: “Sapete, questa per voi è una gran fortuna…”. “Fortuna?” mi hanno guardato esterrefatti. “Si – ho detto io – perchè adesso potete finalmente capire quanto cavolo siete fortunati e quante cose straordinarie avete ogni giorno. Ce le avete tanto facilmente che vi sembrano normali, poi arriva un virus e tutto scompare!”.

Mi hanno guardati tra il perplesso e l’illuminato. Abbiamo cominciato a parlare di quei bambini che nel resto del mondo hanno una casa, dei giocattoli, buone cose da mangiare, dei parenti che li amano. Insomma che sono come loro, ma che all’improvviso sono costretti a rintanarsi tra le mura domestiche o a scappare lontano perchè cominciano a cadere bombe dal cielo o le zolle di terra bagnata, lungo la strada, nascondono IED appena interrate. Perché lo scuolabus sul quale viaggiava il cuginetto è stato colpito da un missile, nonostante fosse carico di bimbi e di zaini azzurri dell’Unicef. Perchè di notte, qualcuno è entrato in casa e ha ammanettato con le fascette di plastica mamma e papà per estorcergli confessioni su cose di cui non sanno nulla. Perchè i “cattivi” sono arrivati e hanno bruciato il villaggio, stuprato le donne e sparato in testa agli adulti, lasciando i bambini in fuga nella giungla con i vecchi, deboli e inoffensivi, senza cibo, senza una rotta, sotto una pioggia torrenziale. Perchè tutto quello che facevano prima come andare a scuola, andare a prendere un gelato, andare al parco gioco è diventato all’improvviso impossibile, tanto da metterne a rischio la vita.

Alla fine della chiacchierata, ho fatto vedere ai miei figli una foto: un mio selfie, in mezzo ai bambini del campo di Moria, Lesbos, un inferno da far rimpiangere la Siria e l’Afghanistan se solo ci fosse rimasto – in quei luoghi -qualcosa da rimpiangere. Mi hanno chiesto la storia di quei bambini, in una foto che sembrava alla fine, null’altro che normale visto che mostrava solo volti sorridenti. Poi ho aperto altre foto e ho fatto vedere loro cosa ci fosse intorno a quello scatto: le baracche, il fango, i rifiuti e tutto il resto. La soluzione potrebbe essere – mi ha detto mio figlio – nascondersi tutti in un pacco di Amazon per fuggire. E a proposito di fuggire abbiamo anche parlato della storia di quel ragazzino nascostosi in Africa nel carrello di un aereo e precipitato in Europa o dei ragazzi che ho visto a Patrasso infilarsi sotto ai camion per arrivare in Italia. Mia figlia ci sta ancora pensando, ma credo che domani o dopo mi fulminerà con qualche riflessione da saggia vecchina di quattro anni.

Ecco: io credo che le crisi siano sempre fonti d’opportunità, che nelle avversità riusciamo a fare e a vedere cose che normalmente ci sembrano impossibili o invisibili. Spero che i miei, i nostri, figli abbiano capito come basti una “creatura” piccolissima – tanto da sfuggire all’occhio umano – per cambiare d’improvviso, nel giro di poche settimane, e radicalmente le nostre vite. Spero che abbiamo capito che tutto quello che possediamo non è scontato, ma qualcosa per cui essere grati. Spero che smettano di lamentarsi per il superfluo. Spero che possano meglio capire le ragioni e i drammi degli altri, vicini o lontani che siano.

I più letti della settimana

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons