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Persona e famiglia > Famiglia

L’equazione dell’amore

- Fonte: Città Nuova

La felicità è spesso il principale parametro della nostra vita. Ma se contemplasse anche il dolore della malattia? Ne è testimonianza autentica la vita di Daniela Zanetta, tra i ritratti di giovani in vista del Genfest

Daniela Zanetta

Se prendendo in prestito qualche termine matematico la nostra vita si potesse esprimere in un’equazione, la felicità non è forse il parametro più importante? Ma quanto riusciremmo ad accettare tra le variabili il dolore per una malattia? E ancora, in che misura questo dolore potrebbe trasformarsi in  amore per Dio? Difficile da accettare non solo per il più forte dei caratteri ma anche per la fede all’apparenza più incrollabile, non per la giovane Daniela Zanetta la cui biografia Salto verso l’alto edita da Città Nuova ci è restituita dalla freschezza delle parole di Piero Damosso e Francesca Giordano: una vita saldamente radicata alla ricerca della felicità eppur marchiata fin dalla tenera età dalla malattia.

Nata nel 1962 a Maggiora, paese in provincia di Novara, Daniela è segnata fin dalla nascita da una malformazione rara, l’epidermolisibollosa distrofica, che colpisce l'epidermide provocando in tutto il corpo bolle e lacerazioni. Daniela, Danielina per  i giovani del Movimento dei focolari di cui fa parte e che conosce a 11 anni, nonostante la malattia la costringa a sottoporsi a cure giornaliere di tre ore è però un ragazza altruista, allegra e impegnata in parrocchia. Affronta la scuola in modo diligente e con ottimi risultati, iscrivendosi alle magistrali, e riesce a vincere l’iniziale diffidenza di chi incontra con un amore che sa entrare nelle più profonde necessità dell’altro. Lo scorso anno nel suo paese natale hanno voluto ricordare questa minuta ragazza dai grandi occhi neri morta a 24 anni – per la quale nel 2004 si è aperto il processo di beatificazione –, con una grande festa per il 25simo anno dalla sua scomparsa.

A casa Zanetta si è sempre respirato un clima sereno. La malattia di Daniela è condivisa dai componenti della famiglia, cinque in tutto, ed è vissuta senza ripiegamenti su se stessi o nascondimenti. Carlo e Lucia, i genitori, hanno costruito una famiglia aperta agli altri – in casa c’era una stanza riservata ad ospitare persone in difficoltà –, e soprattutto a Dio. La famiglia diventa per Daniela il luogo in cui imparare ad accogliere il disegno di Dio nella sua vita, ad amare il prossimo e dove scoprire la bellezza della vita interiore e. Uno dei medici che l’ha avuta in cura ha detto una volta che Daniela aveva vissuto tutti quegli anni perché aveva voluto vivere e perché aveva trovato nei genitori un formidabile sostegno.

Fin da piccola, Daniela ha trascorso molte ore della sua vita fra medicazioni, ricoveri e interventi in ospedale. Anche queste occasioni d’incontro con altri piccoli malati come lei diventano opportunità per amare. Una volta, mentre era ricoverata al Gaslini di Genova, riuscì a convincere papà Carlo a comprare un televisore da mettere a disposizione di tutti per vedere la tivù dei ragazzi. Imparò presto a fare quei “salti” che le permisero ogni volta di andare verso gli altri o superare un momento difficile nonostante il progredire della malattia.

Nel 1973 conobbe il Movimento dei focolari, mentre si trovava in Val Badia con la sua famiglia per una vacanza. «Ho avuto tantissimo aiuto conoscendo la spiritualità di questo movimento – disse durante un’intervista radiofonica –, che mi aiuta soprattutto a capire la croce, a capire il dolore, ad accettarlo come un dono e a viverlo fino in fondo».
Le piaceva trascorrere ore al telefono con le amiche e il suo salotto, spesso non mancava di trasformarsi in platea di un teatro per le prove di uno spettacolo parrocchiale. Ma a causa della malattia non tutto le era possibile. Come quando venne a sapere che non avrebbe potuto prendere la patente. Un dolore da offrire, un salto ulteriore da fare, per lei che a guidare ci teneva tanto. Un patto con Dio che si stringeva sempre di più.

Resta di lei una lettera pubblicata nel numero di novembre del 1984 di Famiglia cristiana in risposta a un articolo su un convegno di medici e professori favorevoli all’eutanasia. «Sono una ragazza di 22 anni, nata handiccapata. Ho una malattia della pelle che mi procura piaghe in tutto il corpo (…). Posso apparire un mostro ma non lo sono! Non è semplice trascorre 22 anni sulla Croce, ma credo in Dio, lo amo intensamente e lo ringrazio per avermi donato la vita, perché ogni nuovo giorno che mi offre è un’occasione in più che ho per amarlo e per servirlo. Ogni vita che sboccia è un dono di Dio, e se questa vita è segnata in modo particolare dal dolore rappresenta un doppio dono perché la sofferenza ci matura, ci permette un dialogo profondo con Dio».

Un anno dopo, a seguito di un ultimo intervento fu costretta a fermarsi a casa: niente incontri con le gen (giovani dei Focolari, ndr.), niente ripetizioni né catechismo. Niente di tutto questo. A Natale si aggravò ulteriormente. Con le altre gen scrisse a Chiara Lubich per comunicarle quanto stava vivendo; Chiara le rispose: «Restiamo giorno dopo giorno, ora dopo ora, con un sì totale in cuore». Morì il 14 di aprile del 1986. Le pagine del suo diario continuano  tutt’ora a conquistare il cuore di tanti, a rimanere una testimonianza forte ed appassionata della vita e a rivelarsi l’unica equazione che nella vita conti: quella dell’amore. «Nonostante le cadute, le sbandate – scrive –, non mi mischierò più alla folla, ma rimarrò ferma al centro del tuo amore…».

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