L’emergenza ambientale sfida i nostri egoismi

Si è parlato molto poco della conferenza sul clima appena conclusa a Buenos Aires. Altre emergenze sembrano imporsi e non si tratta di cose da poco. In primo piano è la pace.Noi stessi ne abbiamo fatto giustamente un tema privilegiato. Non si può passare sotto silenzio il tributo di sangue che la guerra in Iraq continua ad esigere, né dimenticare gli eccidi ancor più cruenti che l’Africa vive quasi quotidianamente. Neppure l’emergenza del terrorismo può essere sottovalutata, per le reali possibilità che esso ha ancora di colpire duramente in qualsiasi punto del pianeta. Dalla Palestina al Caucaso, all’India, profondi contrasti non sanati continuano ad alimentare un fuoco di rivolta che si manifesta in forme autodistruttive di sacrificio della vita di kamikaze contro cui ben poco possono le difese tradizionali. Gran parte dell’opinione pubblica, pur non indifferente davanti a tutto ciò, pare accettare la situazione come si trattasse di un male doloroso sì, ma ineluttabile. Più importante e gravido di conseguenze appare forse, a molti, l’evolversi dell’economia mondiale con l’affacciarsi dei nuovi grandi protagonisti asiatici, i cui ritmi di crescita, finora sottovalutati, stanno mettendo in crisi tutte le certezze di ieri. La vecchia Europa, dal canto suo, alle prese con una trasformazione profonda, gravida di enormi sviluppi, fatica a governare la nuova dimensione continentale che in parte sostituisce e in parte ancora coesiste con gli stati nazione di cui ha mantenuto intatta la grettezza egoistica. Mentre ancora si interroga su come conciliare i valori fondanti della propria grande tradizione culturale nel confronto in atto con le spinte prodotte da nuove eversioni ideologiche e dall’impatto con altre culture diverse per fede religiosa e costume. Forse tutto ciò spiega almeno in parte l’apparente riluttanza a considerare come gravissime minacce quelle annunciate sui cambiamenti climatici e discusse a Buenos Aires da quasi seimila delegati venuti a rappresentare 150 paesi alla decima Conferenza internazionale sul clima. All’ordine del giorno il protocollo di Kyoto e l’abbattimento dei gas serra. Sono note le premesse che hanno visto finalmente raggiunto, con l’adesione della Russia, il quorum minimo di 55 paesi aderenti, necessario perché il protocollo possa entrare in vigore, obbligando i firmatari ad una riduzione del 5,2 per cento delle proprie emissioni nocive entro il 2012. Ciò anche senza la presenza degli Stati Uniti che, con il 25 per cento delle emissioni, sono tutt’ora i maggiori imputati del riscaldamento globale. Anche se non è difficile prevedere che presto essi saranno superati dalla Cina e dall’India. In questo contesto anche l’emission trading, il commercio cioè delle emissioni nocive che prevede la possibilità di vendere e acquistare quote di gas serra per rispettare i limiti sottoscritti dai vari paesi, appare un palliativo. Ecco perché le buone intenzioni dei paesi firmatari del protocollo di Kyoto sembrano vanificate dalla mancanza di prospettive certe sul raggiungimento di un accordo finalmente globale che metta il pianeta al riparo dai gravissimi rischi cui si sta esponendo. E che non si tratti solamente di rischi, ma di certezze, è ormai un’esperienza concreta anche per noi europei. Non ci sono più soltanto i tornado e i tifoni delle fasce tropicali tradizionali o la desertificazione inarrestabile del Sahel a segnalare le variazioni dell’ecosistema, perché la tropicalizzazione è già penetrata nel Mediterraneo, come hanno dimostrato l’estate torrida del 2003 e le recenti alluvioni in Sardegna. Non più soltanto i ghiacciai alpini, ma anche la calotta polare è in sensibile arretramento, fino a fare temere il dirottamento delle grandi correnti marine. Sicché non è difficile diagnosticare che proprio l’Europa, grande beneficiaria di quel clima mite che il Mediterraneo e la corrente del Golfo le hanno garantito per millenni, si troverà ad essere la regione del globo più minacciata da questi cambiamenti. E non importa se i danni più gravi cominceranno a palesarsi solo fra alcuni decenni, perché allora sarà troppo tardi per porvi riparo. Ecco perché è stata proprio l’Europa la più sensibile al richiamo di Kyoto, rinnovato ora a Buenos Aires, drammatica presa d’atto, purtroppo ininfluente, perché non potranno essere i paesi europei da soli, ancorché si dimostrassero i più virtuosi, a determinare la svolta. Appare chiaro però che non si progredirà mai su questo, né su alcun altro percorso di collaborazione, se non si applicherà come prioritaria la regola che è il bene comune a dover prevalere sugli interessi dei singoli. Non più solo nei confronti delle ineludibili minacce dei cambiamenti climatici, dunque, ma di tutte le sfide che il convivere umano propone, nessuna esclusa. Vorremmo fosse questo l’auspicio di un progresso vero verso la nostra riconosciuta interdipendenza, il nostro migliore augurio per il nuovo anno.

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