L’ecatombe di Nargis

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Avolte nella vita ai perché segue lo sgomento. È quello che accade a tanti dopo avere visto scorrere sugli schermi le immagini delle distruzioni causate dal passaggio del tornado Nargis. Per tre volte negli ultimi mesi ho visitato il delta dell’Irrawaddy; già in condizioni normali è un’impresa addentrarvisi e sopravvivere. Immancabilmente, al termine di ogni viaggio, sono stato male, e non poco, tanta è la tensione per quel che si vede e si vive in quelle lande e la precarietà della vita: è il dolore che t’entra nelle ossa e non va più via. Come il colore degli occhi dei bimbi di laggiù: occhi neri, aperti, che non si chiudono mai. Il delta dell’Irrawaddy è una zona esposta ai venti e alle correnti che penetrano dal Golfo del Bengala con forza e violenza, ogni anno; ma, a memoria d’uomo, mai il vento aveva soffiato in maniera tanto impetuosa come questa volta. E l’acqua del mare spesso penetra nel delta, nei canali fino alle campagne, e le inonda; oppure arriva dal nord, rompendo le dighe e arrivando sulla testa degli abitanti. La gente qui è abituata a mangiare pane e dolore, miseria e malattie, lacrime e discriminazione. Come quel bimbo mezzo nudo, avrà avuto tre anni, che ho incontrato nel mio ultimo viaggio, non riusciva a stare in piedi: che male aveva fatto per non poter aver le medicine adeguate? Questa è la vita in Myanmar. Il delta è una zona paludosa, bassa, polverosa e piena di zanzare e fango nei sei mesi estivi, mentre nei restanti sei sono i serpenti che infestano i campi. È una zona abitata in gran parte dai kareani, popolazione senza patria, maltrattata dal governo centrale, da decenni. Una zona chiamata – coi termini della sicurezza nazionale – nera, cioè off limit per gli stranieri. Anche perciò è vietata ai soccorritori. Niente pane, tende, medicine. Tre mie amiche che lavorano per una Ong locale abitano a Yangon. Se ne stavano in casa la sera di venerdì 2 maggio quando il vento si è fatto sempre più impetuoso. Hanno perciò deciso di scendere al piano inferiore, perché avevano paura a rimanere al secondo piano. Pochi istanti dopo il vento s’è portato via il tetto della casa, che pur era costruita in mattoni. Le finestre sono state scardinate e la furia ha fatto piazza pulita… Se fossero rimaste al piano, non sarebbero sopravvissute. E pensare che a Yangon Nargis ha fatto solo una carezza, come mi hanno detto! La città è in effetti tornata ormai quasi alla normalità, il cibo arriva e così l’acqua. Ma più a sud, dove saranno ora i miei amici conosciuti a Ganazogo, vicino a Bogalay, proprio nella zona delle devastazioni? E il villaggetto di Tatagi? Che ne sarà di Francis e della sua famiglia? E delle mamme kareane? La settimana prossima, se il visto arriverà, porterò qualcosa, tutto quanto potrò in Myanmar. E speriamo di trovare i nostri amici vivi, nel sud, nel delta dell’Irrawaddy. So solo che tutti pregano, laggiù, anche i profughi dei campi al confine con la Thailandia. Pregano per i loro cari dispersi. Quanti? Dicono decine di migliaia. Non ho fatica a crederlo. Ma non si sapranno mai le vere cifre della tragedia, questo è certo.

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