Le uscite del weekend

Numerose, come ogni settimana, sono le proposte. Ne abbiamo scelte alcune, "Winter Brothers" e "Dalìland"
Dalìland

Svanita la vittoria o almeno una premiazione italiana a Cannes, si torna alla “normalità”. Ossia, alla pioggia di prodotti da scegliere ogni fine settimana.

Winter Brothers (Fratelli d’inverno) uscito nel 2017 ed ora riproposto è un lavoro del regista islandese Hlmur Pàlmason che risente della sua esperienza di vita e di pensiero in un mondo solitario, freddo, eppure bisognoso di amore. Due fratelli – orfani? – vivono da soli in una baracca presso la cava di gesso in Danimarca dove lavorano. Il maggiore, Johan è riflessivo, taciturno, preciso; il minore, Emil, è più fragile, affamato di amore, di nascosto si occupa di una distilleria che produce in casa un liquore che vende ai minatori. È quasi una droga per dar sollievo ad una vita dura nelle gallerie sotterranee dell’immensa fabbrica. Intorno, il paesaggio è invernale, nevoso, tra alberi stecchiti e un cielo grigio. Emil in casa guarda dei video di esercitazioni militari, vuole imparare a sparare, si vede anche con una ragazza del luogo: ma non è felice.

Un minatore si ammala e muore a causa del liquore e il commercio sotterraneo di Emil viene scoperto. Fra i due fratelli scoppia una lite durissima, sono nudi e indifesi, lottano fino a farsi male, quasi a voler uccidersi. Poi, la furia si calma e il maggiore si preoccupa per Emil. L’amore fraterno ha la meglio, ma la situazione in fabbrica precipita e si volge in dramma. Che fine farà Emil, così affamato di un amore che gli manca?

La desolazione della natura e delle anime attraversa questo dramma potente e delicato, dove la fotografia gelida di giorno e cupa di notte racconta più delle poche parole l’ansia della vita, il desiderio di affetti di un piccolo gruppo umano solo maschile condannato, sembrerebbe, alla schiavitù della miniera da cui è difficile uscire. Resta un barlume di speranza che l’amore in qualsiasi forma possa esprimersi, esista davvero.

 

Dalìland è il ritratto spietato degli ultimi anni di Salvador Dalì a New York, anno 1974. La regia di Mary Harron è lucida e grazie a costumi perfetti, a una fotografia barocca insiste nel mostrarci le debolezze umane del clan di Dalì, l’ostinata ricerca di una (falsa) gioia che attira e poi seduce il giovane James che diventa assistente del pittore. Dietro al glamour, alla vanità, all’esibizionismo, si spalanca in effetti l’immenso vuoto che consuma il vecchio artista, oppresso dalla paura della vecchiaia e della morte, deluso dal rapporto ormai finito con la moglie Gala – un tempo la sua musa –, circondata da amanti.

Film sulla vecchiaia e la solitudine che non risparmia nessuno e che è inutile esorcizzare fingendosi giovani e brillanti, ma anche sui sogni dei giovani disposti a tutto pur di fare carriera e poi delusi da una vita luccicante e falsa. Emerge fra gli attori Ben Kingsley (fin troppo) nei panni dell’anziano artista sempre più eccentrico, e infinitamente triste, che dipingeva per sentirsi vivo e diventando una megalomane caricatura di sé stesso che il film crudelmente e giustamente non evita, pur senza cadere nell’eccesso dell’immagine.

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