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Italia > Società

Le domande scomode che i giornalisti devono fare

di Lucia Capuzzi

- Fonte: Città Nuova

Destinare i soldi alla conversione ecologica invece che alle armi è una scelta politica. L’informazione ha la responsabilità cruciale di offrire elementi utili per un’analisi critica della realtà. Un contributo dalla Conferenza Onu in Brasile sul riscaldamento climatico

Manifestazione per fermare il risandamento climatico alla Cop30 in Brasile. EPA/ANDRE BORGES

L’allocazione delle risorse globali rappresenta il vero campo di battaglia su cui si decide il futuro del pianeta. Non è una questione di possibilità tecnica, ma di volontà politica. La transizione ecologica, infatti, con le conoscenze tecnologiche di cui disponiamo oggi, è pienamente realizzabile. L’unico, vero ostacolo che si frappone tra la crisi attuale e un futuro sostenibile è la scelta politica di dove indirizzare gli investimenti.

Il problema risiede in un sistematico dirottamento delle risorse. I fondi che, in base a impegni internazionali e a un principio di giustizia climatica, dovrebbero essere destinati a finanziare la transizione ecologica, vengono invece ciclicamente assorbiti dall’industria bellica e dalla produzione di armamenti.

L’Europa emerge come un esempio emblematico e doloroso di questa tendenza. Invece di porsi come leader climatico per colmare il vuoto lasciato dagli Stati Uniti di Donald Trump, il continente sta frenando le proprie ambizioni. La causa risiede nel «crescere di forze politiche, se non apertamente negazioniste, comunque ostili a una politica climatica decisa». Queste forze hanno indebolito il piano di tagli del 90% delle emissioni entro il 2040, approvato solo con una serie di attenuazioni.

La giustificazione addotta per questo ridimensionamento è la presunta necessità di un maggiore impegno nella “difesa”. Questa motivazione, tuttavia, non è neutrale, ma si fonda su una precisa e strategica manipolazione del linguaggio.

Il linguaggio, infatti, non è mai un mero strumento descrittivo: è il veicolo attraverso cui si costruisce il consenso e si legittimano agende politiche. La scelta dei termini è un atto strategico volto a rendere accettabile ciò che altrimenti non lo sarebbe. La narrativa bellicista contemporanea si fonda su una deliberata sostituzione terminologica. Invece della guerra si usa il termine difesa e al posto del riarmo si parla di “protezione”.

Questa operazione semantica sfrutta connotazioni psicologiche profonde: la guerra è percepita come “brutta, sporca, crudele”, qualcosa da temere e respingere. La difesa, al contrario, è un concetto “buono”, un “diritto” legato alla protezione di ciò che si ama.

Il ruolo dei media è cruciale per capire tale strategia narrativa. Ci sono domande che noi giornalisti dovremmo aiutare a fare, per fornire al pubblico gli strumenti di analisi critica. Le domande fondamentali sono: Difendersi da chi? Difendersi da cosa? Difendersi come?

Queste domande forzano a esplicitare le minacce reali e le strategie, spostando il dibattito dal piano emotivo della “protezione” a quello razionale della politica.

Dietro questa narrazione agisce la “lobby delle armi”, che non solo finanzia pesantemente campagne politiche, ma cerca di trovare varchi all’interno della società civile finanziando iniziative per promuovere la produzione di armamenti come una fonte di posti di lavoro, normalizzando ulteriormente l’agenda del riarmo. Decostruire questa architettura linguistica diventa quindi una responsabilità primaria per chi opera nel campo della comunicazione.

La guerra in Ucraina ha rappresentato un punto di svolta narrativo, un momento in cui i media, non volendo ipotizzare una scelta intenzionale, si sono lasciati trascinare sdoganando termini e assumendo posizioni senza valutarne appieno le conseguenze a lungo termine.

Le conseguenze negative di questa deriva sono oggi evidenti: la guerra in Ucraina prosegue senza soluzioni concrete all’orizzonte. Una drammatica strage di vite umane persiste quotidianamente. Si è innescata una pericolosa corsa mondiale al riarmo.

Di fronte a questo scenario, i comunicatori hanno una serie di compiti specifici e urgenti:

Prima di tutto smontare la narrativa, e cioè chiamare la guerra con il suo nome, rifiutando l’eufemismo della “difesa”.

Porre, poi, domande scomode. Chiedere quale sia la minaccia reale che giustifica un tale riarmo e quali strategie alternative, non militari, esistano per affrontarla.

Occorre infine recuperare il valore delle istituzioni multilaterali create dopo la Seconda Guerra Mondiale con lo scopo esplicito di prevenire i conflitti. Occorre contrapporre la complessità della diplomazia all’idea riduttiva che l’unica difesa possibile sia quella militare.

Il progressivo abbandono della via diplomatica si inserisce in un quadro di mutamenti profondi degli equilibri globali, dove nuovi attori stanno emergendo per colmare i vuoti lasciati dalle potenze tradizionali.

Il sistema multilaterale appare oggi indebolito, messo in crisi dal disinteresse degli Stati Uniti e dall’ambiguità di un’Europa concentrata su “altre emergenze”. Tuttavia non è ancora sconfitto.

Di fronte a un Nord del mondo distratto e ripiegato su se stesso, è il Sud globale a prendere le redini della negoziazione climatica. Questo slancio ha un contesto preciso. La COP 30 è tornata dopo diversi anni a svolgersi in un Paese democratico, il Brasile, in cui la presenza della società civile è fortissima. È proprio questa la realtà in grado di esercitare una forte pressione sui propri leader affinché trovino strategie comuni per affrontare la minaccia esistenziale del riscaldamento globale.

In questo contesto, le conferenze sul clima (COP) rappresentano l’ultimo pezzo del sistema multilaterale rimasto in piedi. Nonostante i loro evidenti difetti — processi “lenti, farraginosi, complicati” — il loro valore è tangibile. L’esempio degli Accordi di Parigi del 2015 resta illuminante: senza di essi, la previsione di aumento della temperatura globale a fine secolo era di intorno ai 4°C. Grazie a quegli accordi, questa previsione l’abbiamo quasi dimezzata.

Questo risultato, sebbene non ancora sufficiente, dimostra in modo inequivocabile che la politica dei piccoli passi riesce a dare qualche risultato. È la prova che il dialogo e la cooperazione internazionale, per quanto imperfetti, sono strumenti efficaci. Questo pragmatismo politico ci conduce alla riflessione finale sul valore ultimo che l’umanità è chiamata a proteggere.

Al di là dei negoziati, delle alleanze e delle narrazioni, esiste un bene fondamentale che è precondizione per qualsiasi progresso. La pace non è un’utopia astratta, ma quel bene preziosissimo che costituisce l’unica vera difesa e garanzia di sopravvivenza per l’umanità. In un mondo che investe risorse infinite per armarsi contro minacce esterne, la vera minaccia esistenziale è la perdita della pace stessa.

Messaggio inviato dall’autrice, inviata speciale del  quotidiano Avvenire a Belém, in Amazzonia,  per l’incontro Segnali da un futuro possibile che si è svolto ad Iglesias dal 14 al 15 novembre 2025.

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