Il modello capitalistico altamente finanziarizzato, nell’era della globalizzazione e in presenza di paradisi fiscali aumenta in maniera sproporzionata il potere contrattuale di pochi nella ripartizione della torta del valore creato.
.La radice della crescita della povertà e delle diseguaglianze si trova nella combinazione di tre fattori dell’economia: globalizzazione, finanziarizzazione e innovazione tecnologica.
L’innovazione tecnologica aumenta il differenziale tra le persone in base alla specializzazione.
La globalizzazione produce ciò che io chiamo la legge di gravità e cioè mette in concorrenza tra loro i lavoratori con bassa qualifica che si trovano in diverse parti del Globo. Quelli che abitano i Paesi con alta fascia di reddito perdono forza gradualmente nella loro capacità contrattuale in azienda. Se un lavoratore metalmeccanico prendeva di media 36 dollari lordi all’ora nel 2012, viene ora a competere con il lavoratore polacco che ne prende 9 e con il cinese che ne prende addirittura soltanto uno. Cosa succede all’interno di un’azienda che può facilmente sostituire un operaio di un paese x con un altro del paese y?
Se prima della globalizzazione il rapporto tra capitale e lavoro raggiungeva un certo equilibrio, ora le fette della torta sono divise in maniera tale che al lavoratore spetterà sempre di più la frazione più piccola. L’impresa può importare il prodotto finito o inserire fasce sempre più crescenti di precarietà nelle proprie filiere. Se quindi la quota dei salari diminuisce in confronto al Pil, abbiamo la top class che cresce come reddito perché gode dei risultati di questo tipo di globalizzazione. Siamo davanti al famoso e conosciuto fenomeno dell’esercito industriale di riserva evidenziato dall’analisi marxista come insieme della popolazione potenzialmente disoccupata e quindi propensa ad accettare salari sempre più ridotti per la concorrenza esistente a livello globale. Questo meccanismo porta ad aumentare le diseguaglianze soprattutto all’interno dei Paesi ricchi.
Ma cosa è questa globalizzazione? È l’insieme di innovazioni del settore dell’elettronica e delle comunicazioni che fanno crollare il costo di trasporto delle merci senza peso come possono essere le voci, i suoni, le immagini ma soprattutto il denaro. In tal modo il prodotto e il lavoro entrano in un mercato internazionale dove le competenze più ricercate hanno un forte potere contrattuale senza bisogno di sindacati mentre il resto è facilmente sostituibile e perde di forza pur in presenza dei sindacati. I differenziali tra bassi e alti profili professionali diventano, così, enormi e lo stesso avviene con i livelli di scolarizzazione che diventano sempre più non comparabili divenendo un formidabile motore di diseguaglianza.
I SUPER RICCHI
La classe privilegiata di super ricchi che si viene a formare non avverte questa separazione come un problema ma giustifica e magnifica l’effetto di sgocciolamento della ricchezza che comunque viene a redistribuirsi come avviene con le coppe di champagne messe a piramide che, una volta riempite, lasciano cadere ciò che eccede a vantaggio dei calici posti in basso (“trickle down”).
In effetti come dice il premio Nobel Joseph Stiglitz, il liquido non arriva a cadere perché evapora verso l’alto per il clima dei paradisi fiscali. Verso questa teoria non dimostrata e fideistica della “ricaduta favorevole” si è diretta la critica di papa Francesco nell’esortazione manifesto della Evangelii Gaudium ed è su questo punto che gli economisti liberisti statunitensi hanno manifestato il loro forte disappunto verso una tesi che sgretola le loro certezze.
Se vogliamo fare un’analisi degli effetti della diseguaglianza bisogna riconoscere in questa l’origine di moltissimi mali a cominciare dalla crisi finanziaria. I dati li ha messi in evidenza Thomas Pikketty quando ha dimostrato l’analogia tra quanto avveniva nel 1929 e la situazione del 2007 quando negli Stati Uniti siamo arrivati al massimo livello di diseguaglianza con il top dell’1 per cento dei redditieri che detiene un ¼ dell’intera torta. Una distribuzione squilibrata che era stata corretta dopo la crisi del ‘29 per poi precipitare a tali livelli dopo l’era di Reagan e Thatcher con la conseguenza che tutta l’economia ne soffre perché non può reggersi con i consumi del caviale dei super ricchi.
Senza un consumo di massa, precipitano le condizioni di vita delle persone che appartengono ai ceti medio bassi le quali possono mantenere certi livelli di spesa solo ricorrendo all’indebitamento. Il nesso tra salari che diminuiscono e consumi mantenuti tramite il ricorso al debito provoca la crisi finanziaria. Se in Italia è più evidente la crisi del debito pubblico, nei Paesi anglosassoni è il debito contratto dai privati ad aumentare fino alla crisi de mutui sub prime concessi negli Usa ai soggetti non solvibili. Ma si pensi anche all’uso eccessivo e insostenibile delle carte di credito.
L’altro effetto diretto della diseguaglianza è evidentemente quello della migrazione, le persone si spostano alla ricerca di condizioni migliori dove poter vivere (o come si dice tecnicamente per lucrare il differenziale di felicità), è questa la molla degli spostamenti: la profonda differenza di condizione di benessere tra due Paesi. La gente si muoveva dalla Polonia verso l’Italia negli anni 80 con la fine del Muro di Berlino, ma adesso i polacchi non si muovono più perché la sproporzione (il gap) si è colmata mentre oggi crescono altre ondate migratorie (ad esempio la Siria) che risolvono solo in parte il problema ma ne creano altri e quindi l’unica soluzione possibile resta quella di diminuire la diseguaglianza tra i Paesi stessi.
Un altro effetto particolare della diseguaglianza è quello degli squilibri demografici perché il maggior benessere provoca la contrazione delle nascite e l’aumento esplosivo della popolazione nelle zone più povere che esercitano così la pressione verso nuove ondate migratorie, senza tacere le conseguenze dannose in campo ambientale.
Ma su tutto non dobbiamo tralasciare un fattore psicologico confermato da tutti gli studi sulla percezione della felicità e cioè che la valutazione sulla propria condizione personale avviene principalmente mettendola a confronto con quella degli altri. Il progresso di benessere che si registra in un Paese diventa motivo di crescita di malessere negli altri. Vale sempre il confronto tra ciò che abbiamo noi e quello che hanno gli altri. L’esempio famoso è quello della Nuova Zelanda del 1793 che decide di riconoscere il diritto di voto alle donne dando motivo per la nascita del movimento delle suffragette in Gran Bretagna.
AMERICAN DREAM
La nostra felicità si percepisce dal confronto con la condizione di benessere degli altri. Le diseguaglianze generano un forte disagio sociale. Uno studio fondamentale in questo senso è “La misura dell’anima. Perché le diseguaglianze rendono le società più infelici” pubblicato nel 2009 da Richard Wilkinson e Kate Pickett dove si pone in evidenza che la generazione di infelicità è mitigata dalla percezione della possibile mobilità sociale, la possibilità di prendere l’ascensore che conduce ai piani alti che diventano accessibili non solo per pochi.
Spesso questa mobilità non è tale nella realtà ma conta molto la percezione di questa possibilità di crescita che permette di sopportare anche forti e immotivate diseguaglianze. È questo il segreto dell’American Dream , il sogno americano inteso come genere letterario nato con i romanzi d’appendice per dare l’idea che la povertà si può superare perché il sistema permette di diventare ricchi e benestanti per chi riesce a darsi da fare. Il messaggio che passa è quello di poter dire “ce la posso fare!” senza perdere tempo a fare l’agitatore sociale o il sindacalista. Siamo davanti alla creazione di una potente leva immaginaria che, poi, non coincide con la realtà, come si riscontra negli stessi Stati Uniti dove l’ascensore sociale è inceppato da tempo e quindi permane come un forte anestetico dell’infelicità da diseguaglianza.
La produzione di questo tipo di globalizzazione della diseguaglianza non avviene in base ad un progetto scritto a tavolino ma è la conseguenza di scelte compiute nelle aziende. Tutto viene deciso a quel livello con la divisione della torta che avviene tra i vari portatori di interesse. Fino a quando abbiamo avuto un mondo chiuso è stato possibile mantenere una certa equità nella redistribuzione del benessere tramite lo strumento contrattuale, a cominciare da quello di lavoro. Con l’apertura dei mercati l’azionista proprietario delle grandi società ha visto aumentare il proprio potere a scapito di quello del lavoratore che può subire la concorrenza della manodopera meno costosa fino alla delocalizzazione dell’intera impresa.
Se questa è la situazione di fatto, dobbiamo capire se è possibile passare da una corsa al ribasso ad una diversa e opposta al rialzo. Una soluzione radicale è quella di elevare le condizioni degli ultimi ed è questa la strada intrapresa su scala globale dal movimento del commercio equo e solidale senza fermare alla frontiera i prodotti dei Paesi poveri ma premiando quei beni prodotti secondo regole di equità sociale e ambientale.
La soluzione opposta è quella della paura verso chi sta peggio di noi, i poveri visti come una minaccia con gli effetti noti in campo politico dove l’arretramento del ceto medio suscita la crescita di spinte al populismo che vede nello straniero una minaccia e un capro espiatorio. In questa maniera stiamo assistendo al capovolgimento tra destra e sinistra con gli ex comunisti che, per cancellare il loro peccato originale, si presentano come economisti cosmopoliti fiduciosi di un mercato capace di autoregolarsi tanto da diventare cantori della globalizzazione contro una destra che interpreta e asseconda le paure reali delle periferie senza tuttavia saper proporre delle soluzioni reali.
Se si vuole affrontare il problema bisogna ripartire dal ruolo dello Stato e in particolare dalla leva fiscale capace di prelevare non la fase della produzione ma quella dei consumi tassando i beni che provengono dalle filiere non sostenibili sotto l’aspetto sociale e ambientale.
In questa maniera si può incidere per riequilibrare le diseguaglianze piuttosto che intervenire al momento della produzione fissando un minimo salariale molto alto o tassando pesantemente le emissioni perché in tal modo si rischia di incentivare deindustrializzazione e delocalizzazione.
Bisogna passare cioè dalla carbon tax alla green consumption tax. “Mentre infatti la vecchia carbon tax alla Pigou (l’economista che la “inventò”) in un mondo globalmente integrato finirebbe per alzare il differenziale di costo di produzione con i concorrenti esteri, facendoci perdere altra occupazione, la green consumption tax penalizzerebbe sullo scaffale dei punti vendita i prodotti più inquinanti e con meno dignità del lavoro promuovendo la dignità del lavoro sia da noi che nei Paesi del Sud del mondo. Questa strategia fiscale sarebbe fondamentale per evitare che la globalizzazione diventi una corsa al ribasso sui diritti del lavoro e la tutela dell’ambiente e per assicurare che i suoi benefici possano distribuirsi su una fascia più vasta della popolazione.
Non esistono vincoli internazionali o anche solo europei di mercato che impediscano di poter selezionare e premiare fiscalmente i prodotti in base alla qualità sociale e ambientale della loro filiera, anzi nei casi più eclatanti posso vietare la importazione e la vendita di alcuni beni come avviene con la presenza del lavoro minorile che legittima la proibizione dell’entrata dei prodotti nel proprio Paese. Anche la finalità sociale può essere riconosciuta e premiata come avviene con le botteghe del commercio equo che sono di solito cooperative di tipo A e quindi agevolate dal punto di vista fiscale.
Una leva ulteriore è costituita dallo Stato come consumatore che può esercitare anch’esso il voto con il portafoglio quando decide di procedere con gli acquisti pubblici ponendosi l’obiettivo di chiedere certi requisiti ai fornitori come avviene ad esempio con i mobili certificati come indenni da ogni filiera collegata con la pratica devastante della deforestazione.
La giurisprudenza riconosce le ragioni della pubblica amministrazione che chiede prodotti di un certo tipo lasciando ai venditori di dimostrare di saperli fornire: posso cioè chiedere che venga installato un distributore di caffè solidale e la multinazionale non può sollevare obiezioni se non è in grado di offrire un tale tipo di merce.