Le bombe nucleari su Hiroshima e Nagasaki e la fine della storia

L’apocalisse contemporanea come espressione della “tecnicizzazione dell’esistenza”. A 77 anni dal disastro nucleare sulle città giapponesi è necessario riscoprire l’intuizione sempre più attuale del filosofo Günther Anders nella corrispondenza con Claude Eatherly, il meteorologo statunitense distrutto dai rimorso per aver dato l’ok al lancio dell’ordigno nucleare su Hiroshima
Hiroshima, foto dell'equipaggio dell'aereo che lanciò la bomba atomica sula città di Hiroshima il 6 agosto 1945 (AP Photo/Max Desfor)

A 77 anni dal bombardamento nucleare su Hiroshima e Nagasaki e a sei mesi dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina da parte della Russia – in cui la minaccia di un’estensione planetaria della guerra risuona dopo la “fine della storia” – tornano d’attualità le riflessioni di filosofi come Günther Anders a proposito della società contemporanea incardinata tra la tecnicizzazione dell’esistenza e l’ingresso – a partire dal lancio della prima bomba atomica – nell’Endzeit, il tempo della fine, quello di una realtà intrinsecamente minacciata dal rischio di un’apocalisse nucleare.

Così, l’esercizio della memoria più si fa accurato – senza scivolare nell’arido nozionismo – più dona l’occasione per pensare con autenticità il tempo presente.

Quando e come è iniziato il tempo della fine? Perché si può dire che siamo in un’epoca apocalittica? Con questa espressione si intende non tanto il richiamo a scenari sciagurati, quanto – riattingendo al significato etimologico del termine apocalisse, dal greco apokálypsis che significa rivelazione, separazione di ciò che è nascosto – l’età della compiuta manifestazione della scelta fondamentale che la libertà umana è chiamata compiere da sempre, quella tra la pace e la vita da un lato e la morte e la distruzione dall’altro.

Possiamo dire che iniziò alle 8.15 del 6 agosto 1945, quando venne sganciata su Hiroshima la bomba ad uranio arricchito che uccise sul colpo tra le 70 mila e 80 mila persone; e si dispiegò definitivamente tre giorni dopo, il 9 agosto alle ore 11.02 del mattino, quando la seconda bomba colpì Nagasaki (il primo obiettivo era Kokura) e, secondo le stime più diffuse, vennero uccise sul colpo tra 35 mila e le 40 mila persone. Persone con una storia, una vita, una famiglia. Non semplici numeri da scrivere sui libri.

Quattordici anni dopo, nel 1959, il filosofo Günther Anders, che studiò con Jonas, colui che pensò il “principio di responsabilità”, dopo aver saputo dei gravi problemi psicologici che disturbarono nel dopoguerra Claude Eatherlyil meteorologo militare americano che diede l’ok per il lancio della bomba atomica su Hiroshima – scrisse così al pilota: «Il modo in cui lei verrà (o non verrà) a capo della sua sventura, è seguito da tutti noi (che si viva a New York, a Tokyo o a Vienna) con il cuore in sospeso. E non per curiosità […]. Ma perché ci sforziamo, con ansia e sollecitudine, di venire a capo dei problemi che oggi si pongono di fronte a tutti noi. La “tecnicizzazione dell’esistenza”: il fatto che indirettamente e senza saperlo, come le rotelle di una macchina possiamo essere inseriti in azioni di cui non prevediamo gli effetti, e che, se ne prevedessimo gli effetti, non potremmo approvare – questo ha trasformato la situazione morale di tutti noi.

La tecnica ha fatto sì che si possa diventare “incolpevolmente colpevoli”, in un modo che era ancora ignoto al mondo tecnicamente avanzato dei nostri padri.

Lei capisce il Suo rapporto con tutto questo: poiché Lei è uno dei primi che si è invischiato in questa colpa di nuovo tipo, una colpa in cui potrebbe incorrere – oggi o domani – ciascuno di noi» (G. Anders, L’ultima vittima di Hiroshima. Il carteggio con Claude Eatherly, il pilota della bomba atomica, trad. it. R. Solmi, Mimesis, Milano 2016, p. 25).

Così Anders ha mostrato come anche solo i numeri delle vittime (in tutto quasi centomila persone uccise in un istante) non possano essere rappresentati dalla nostra coscienza e che questa incapacità di immaginare gli effetti disastrosi di ciò che produciamo, ci rende tutti, in qualche misura, degli alienati: «ciò che ci dovrebbe mettere in agitazione oggi […] è che al paragone di ciò che sappiamo e che possiamo produrre, possiamo immaginare e sentire troppo poco. Che, nel sentire, siamo inferiori a noi stessi». (Lettera di Anders a Eatherly in Ultima Vittima di Hiroshima, op. cit., p. 279).

Non solo, ma ha anche saputo esplicitare le conseguenze di questa “tecnicizzazione dell’esistenza”, tra cui quella di rendere l’uomo un vero e proprio “signore dell’Apocalisse” (cfr. Anders, L’uomo è antiquato, trad. it. L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2021, p. 225) il quale, dopo aver rincorso il desiderio prometeico di onnipotenza, si è ritrovato realmente ad esserlo ma in senso distruttivo.

È il dramma della società della tecnica che acuisce il rischio non solo dell’“uomo senza mondo”, che Auschwitz aveva drammaticamente dischiuso, ma anche quello di “un mondo senza uomo”. Se, infatti, la tragedia della Shoah aveva delineato il panorama devastante di un uomo avulso dal suo contesto esistenziale, il disastro nucleare ha prospettato un paesaggio svuotato della stessa umanità.

Appare così chiaro come ricordare questo anniversario significhi non semplicemente guardare al passato, ma soprattutto entrare con consapevolezza nelle piaghe dell’attualità come drammaticamente dimostra la guerra in Ucraina, con le continue e pericolosissime minacce di estensione del conflitto.

Ricordare Hiroshima e Nagasaki significa, da un lato prendere dolorosa coscienza della bomba a orologeria su cui come umanità siamo seduti se continuiamo a pensare che per costruire la pace occorra armarsi di paura; dall’altro, vedere con piena libertà il monito che si staglia dalla Shoà nucleare e che grida “mai più!”.

Come ha ricordato papa Francesco nella sua visita, prima a Nagasaki e poi a Hiroshima, davanti a queste città «non saranno mai abbastanza i tentativi di alzare la voce contro la corsa agli armamenti. […] i soldi spesi e le fortune guadagnate per fabbricare, ammodernare, mantenere e vendere le armi, sempre più distruttive, sono un attentato continuo che grida al cielo». E ancora «un mondo in pace, libero da armi nucleari, è l’aspirazione di milioni di uomini e donne in ogni luogo. Trasformare questo ideale in realtà richiede la partecipazione di tutti: le persone, le comunità religiose, le società civili, gli Stati che possiedono armi nucleari e quelli che non le possiedono, i settori militari e privati e le organizzazioni internazionali».

Hiroshima e Nagasaki, così come la storia di Eatherly – che ha avuto il coraggio di diventare pazzo pur di affrontare l’orribile realtà in cui era immerso – ci ricordano quanto il mondo abbia bisogno di cittadini consapevoli, pronti a fare memoria, e dunque custodire quanto accaduto, non solo per non ripetere, ma soprattutto per rendere strutturalmente più difficili i gravi disastri del passato.

Fare questo non significa un di più rispetto all’essere semplici cittadini; al contrario, significa contribuire a costruire democrazie compiute. Come scrive Anders, «democrazia significa, in fin dei conti, sentirsi responsabili non solo delle proprie azioni e della scrupolosa esecuzione del lavoro che ci è stato assegnato, ma anche delle azioni che riguardano tutti gli altri concittadini e tutti gli altri uomini».

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