La professorezza Uelmen si occupa da molto tempo del rapporto tra legge e morale e, soprattutto, in un suo lavoro del 2015 ha posto la questione su come la riflessione in ambito giuridico possa essere ispirata dall’insegnamento sociale di papa Francesco. Infatti i suoi gesti simbolici, la sua presenza e le sue parole nei posti più travagliati del pianeta, e soprattutto i documenti ufficiali, hanno spinto decisamente in avanti l’applicazione dei principi dell’insegnamento sociale della Chiesa alle questioni contemporanee.
Tutto ciò sicuramente amplia il dialogo tra il pensiero sociale cattolico e le altre discipline anche se, spesso, gli insegnamenti di Francesco sfidano direttamente lo status quo e inducono delle reazioni piuttosto accese sia di adesione che di critica. In particolare il suo invito a dire “no” alla “asfissia spirituale” che nasce per «l’inquinamento causato dall’indifferenza, dalla trascuratezza di pensare che la vita dell’altro non mi riguarda»[1], è sempre più al centro del dibattito politico e culturale.
Lei insegna alla Georgetown University nel campo del diritto ed è molto impegnata a livello delle istituzioni ecclesiali. Che clima si respira in questi ultimi anni nella società e nella Chiesa americana?
Recentemente in molte parti del mondo, compresi gli Stati Uniti, abbiamo assistito a un incremento della polarizzazione politica. Fin dai primi anni 2000 la maggior parte del mio lavoro in comunità, nell’insegnamento e nella ricerca, si è concentrato su questa questione, ma gli ultimi anni sono stati particolarmente intensi.
Quando ho letto il titolo dell’ultima esortazione apostolica di papa Francesco Gaudete et exsultate (GE), “Gioite ed esultate”, alla luce dei recenti eventi negli Stati Uniti e dappertutto nel mondo, la mia prima reazione è stata a mezza strada tra un sorriso ironico e una smorfia triste. Come si può gioire ed essere felici vivendo e lavorando a Washington D.C. che, ultimamente, è diventata una specie di epicentro di situazioni problematiche?
Per esempio, nell’estate 2018 lo scandalo sulla modalità della gestione, a vari livelli, del caso del cardinale McCarrick ha devastato l’arcidiocesi di Washington come uno tsunami di rabbia e frustrazione. Quest’onda si è trasformata in sdegno per come la segretezza, l’evasività, il clericalismo e l’arroganza hanno avvolto i casi di abuso e per come è stata gestita l’informazione per decenni.
L’altro aspetto di questo epicentro è di natura politica. Insegno nella facoltà di legge della Georgetown University che è situata a sei caseggiati dal Campidoglio degli Stati Uniti, la cui ombra mi “saluta” ogni mattina quando entro nell’istituto. Nell’autunno 2018 ho tenuto un seminario intitolato “Religione, moralità e richieste di giustizia controverse” con lo scopo di aiutare 18 studenti di “legge e procedure governative” a sviluppare le competenze comunicative di cui hanno bisogno nelle situazioni di forti differenze politiche e religiose, oltremodo polarizzate.
Per dare un’idea della sfida: abbiamo simulato una conversazione sulla questione dei migranti la stessa mattina in cui si teneva l’audizione che ha accertato le accuse di molestie sessuali nei confronti di Brett Kavanaugh, il giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti scelto dal presidente Donald Trump. L’esasperazione e l’irritazione si potevano tagliare con un coltello. In quelle stesse settimane mi era capitato di fare da cassa di risonanza per parecchie studentesse che mi avevano confidato le loro storie “MeToo” di abusi e violenze sperimentati nelle loro vite. “Gioire ed esultare”. Ma scherziamo? Piuttosto piangere e digrignare i denti.
Poco dopo quella lezione sui migranti, riflettevo su come, a quel punto del semestre, il nostro seminario, di solito, aveva già fatto quella sorta di scatto per cui gli studenti decidono di fidarsi l’uno dell’altro, con una delicata combinazione di schiettezza e rispetto. Ma stavolta quella dinamica non era assolutamente in vista. Questa sorta di blocco nel percorso del nostro seminario è stata un’occasione per ricordarsi che l’unità è un dono di Dio e così, con semplicità, mi sono ritrovata a pregare perché potessimo essere aperti a ricevere tale dono quando e come sarebbe venuto.
Due settimane dopo stavamo discutendo sull’eutanasia e i testi includevano riflessioni su come la depressione e la malattia mentale potevano influire sulle decisioni delle persone. All’inizio del semestre uno degli studenti mi aveva confidato che sua madre, che aveva combattuto un cancro al seno per quasi un decennio, era entrata in una fase terminale. Quel giorno io sapevo già che era morta la settimana prima, ma il resto della classe non ne era a conoscenza. Lui, raccogliendo davvero tutte le sue energie, espresse agli altri il suo atteggiamento nell’accompagnare la mamma verso il momento della morte.
In quella stessa lezione altri tre studenti diedero ai loro colleghi un’idea di come le loro battaglie con la depressione e l’ansia avevano un impatto sulle loro decisioni. Nessuno degli interventi fu eccessivo. In quel momento la classe intera era diventata un gruppo basato su un legame di fiducia che è rimasto forte per tutta la durata del semestre. Racconto questo episodio perché penso che possa suggerire un’idea su come rispondere alla sfida delle “beatitudini” nella Chiesa e nella società di oggi a cominciare dagli Stati Uniti, ma anche dappertutto.
Ha citato le “beatitudini” evangeliche, eppure niente sembra più lontano dal clima dei nostri tempi di tale prospettiva. Non si vede come esse possano portare a dei risultati realmente efficaci e tangibili rispetto alle drammatiche questioni sul tappeto e ai numerosi fronti caldi aperti un po’ ovunque.
Se andiamo a fondo su come papa Francesco ci incoraggia a prendere sul serio le “beatitudini” (Mt 5, 3-12) nella nostra vita quotidiana, si rimane colpiti dall’ampiezza e dalla profondità del suo invito: «Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione» (GE, 26).
E si resta anche attratti dalla natura paradossale della sfida e di come tale paradosso venga eluso nelle nostre attuali crisi ecclesiali, politiche e sociali. Ad un primo sguardo le stesse “beatitudini” sembrano intrise di tensioni impossibili. Mi piace iniziare dalla tensione che c’è tra «beati i miti», «beati i misericordiosi» e «beati coloro che hanno fame e sete di giustizia».
Come avvocato, mi sento molto a mio agio con la richiesta di «fame e sete di giustizia». Il papa scrive: «“Fame e sete” sono esperienze molto intense, perché rispondono a bisogni primari e sono legate all’istinto di sopravvivenza. Ci sono persone che con tale intensità aspirano alla giustizia e la cercano con un desiderio molto forte […]. Noi possiamo collaborare perché sia possibile» (GE, 77). Ammonendo contro la rinuncia a combattere per una vera giustizia, il papa mette l’accento sulla «giustizia con gli indifesi» (GE, 79). Tutto questo è molto forte.
Mi trovo in difficoltà, invece, quando devo mettere insieme questo con quanto dice commentando «beati i miti». Papa Francesco scrive: «La mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti. Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. È meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni» (GE, 74).
Se guardiamo intorno al nostro mondo, alla nostra cultura e ad alcuni aspetti della Chiesa, vediamo molte cose che rappresentano una sfida, per cui protestare. E non per degli interessi particolari e di parte, quanto proprio per motivi di giustizia nei confronti dei più deboli. Come avvocati, come insegnanti che preparano futuri avvocati, non trattiamo generalmente questioni legate direttamente ai nostri interessi personali, ma a quelli di altre persone. E una cosa è essere “miti” nei confronti dei propri interessi, completamente un’altra faccenda è chiedere a un’altra persona, che in quel momento si rappresenta, di assumere un tale atteggiamento di mitezza.
Inoltre, se consideriamo le attuali tensioni politiche o ecclesiali, ci possiamo chiedere: «Fino a che punto la richiesta di mitezza ha impedito che pratiche viziose causassero continui danni e serie ingiustizie?». Basta prendere qualsiasi questione culturale o ecclesiale: i dibattiti nelle università e nelle scuole; il modo di affrontare le accuse di abusi sessuali; la questione dell’immigrazione e lo statuto dei migranti senza documenti; siamo come paralizzati dall’impossibilità di risolvere polarità che coinvolgono serie ingiustizie.
(fine prima parte)