Le armi, l’Italia e la domanda di Carlo Rovelli

Lo scienziato Carlo Rovelli, promotore con Giorgio Parisi e altri premi Nobel di un appello mondiale per la riduzione delle spese militari, si interroga sulla mancanza di una rappresentanza politica in Italia delle ragioni della pace.  Ma il nostro Paese, alla vigilia delle elezioni del suo presidente, è ancora una Repubblica che ripudia la guerra? E quale è la posizione reale dei cristiani? Alcune suggestioni dalla lezione di vita di Massimo Toschi
Carlo Rovelli, fonte Wikipedia

«Come mai non esiste una rappresentanza politica in grado di esprimere l’orientamento prevalente degli italiani a favore della pace?» La domanda l’ha posta Carlo Rovelli, noto scienziato di livello internazionale e saggista di successo, durante  un dibattito sul web organizzato da Pax Christi il 31 dicembre 2021, alla vigilia della giornata della pace promossa, a cominciare dal 1968, ogni primo dell’anno dalla Chiesa cattolica per iniziativa di papa Paolo VI.

Al dialogo hanno partecipato Luigi Bettazzi, vescovo emerito di Ivrea, e Andrea Monda, direttore de L’Osservatore Romano, moderati da don Renato Sacco. Interlocutori autorevoli, Bettazzi è l’ultimo padre conciliare vivente, del cosiddetto mondo cattolico per Rovelli che è noto per la sua aperta professione di un ateismo sistematico, strettamente connesso, cioè, con il metodo della ricerca scientifica.

Una posizione che lo accomuna al novello premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi. Il mondo, ad ogni modo, è pieno di scienziati credenti ma quel che conta, con riferimento alla questione pace e guerra, è la scelta recente dei due studiosi di diventare portavoce dell’appello lanciato da un gran numero di esponenti della scienza, tra i quali oltre 50 premi Nobel, per la riduzione del 2% per 5 anni della spesa destinati dagli Stati in armamenti per «reindirizzare le notevoli capacità di ricerca dell’industria militare verso scopi pacifici nei settori di massima urgenza».

Una proposta minima, non certamente rivoluzionaria, ma semplicemente “ragionevole” come la definiscono gli estensori dell’appello: «ciascun attore sarà in grado di beneficiare dalla riduzione degli arsenali del nemico, e così pure l’intera umanità. Cerchiamo di collaborare tutti insieme, anziché combatterci».

È la stessa proposta fatta a suo tempo, nel 1964, da Raoul Follereau, il poeta visionario che chiedeva ai Paesi invischiati nella Guerra fredda di destinare almeno l’equivalente del costo di un cacciabombardiere per eliminare il terribile morbo della lebbra dal mondo.

Una premessa da dimostrare

Il punto debole di tali appelli risiede probabilmente nel fare affidamento al buon senso e alla ragione dato che la scelta del riarmo orientato alla guerra è una manifestazione di una follia ossessiva come l’ha descritta nel 1963 Giovanni XIII nella Pacem in terris in un testo in latino che troppe traduzioni hanno poi annacquato: “alienum est a ratione”.


Nagasaki foto Ap

Lo scrittore Gunther Anders, autore di analisi ineguagliabili sulla bomba atomica, ha invitato a non fidarsi della presunta saggezza dei cosiddetti reggitori del mondo per impedire la distruzione del genere umano. La stessa consapevolezza espressa in nitide opere cinematografiche dal film “A prova di errore” di Sidney Lumet del 1964, dove sono i militari ad opporsi inutilmente all’uso delle armi di distruzione di massa, al recentissimo, realistico Dont look up! di Adam McKay in cui la possibile salvezza dell’umanità dall’impatto con un asteroide è tragicamente impedita dalla ricerca spasmodica del profitto ad ogni costo.

Il ragionamento di Rovelli parte, ad ogni modo, da una premessa che è tutta da dimostrare: è difficile, infatti, poter dire che la maggioranza delle persone in Italia sia contraria alle spese in armi, e quindi alla guerra, in forza di una certa prevalente formazione cattolica. Molto più realisticamente si può dire che, con alcune eccezioni, la questione della guerra è ormai da decenni rimossa nel dibattito culturale ecclesiale mentre il tema della pace viene declinato in maniera molto generica, lontano da ogni confronto con la realtà.

Non è solo la reazione ad un disincanto successivo al fallimento delle grandi manifestazioni che nel 2003 si illusero di poter impedire la guerra in Iraq con tutte le prevedibili conseguenze geopolitiche che ne sono derivate. Già prima di questo evento traumatico è stato evidente l’errore di considerare la scomparsa dell’Unione sovietica quale premessa per l’avvento di un’era di pace, come dimostrato tragicamente con la prima guerra del Golfo, quella nell’ex Jugoslavia e poi il conflitto in Afghanistan e così via.

Ambiguità sulla guerra

Per andare alla radice di una carenza nel cogliere i segni dei tempi della storia è importante saper ascoltare la lettura che Massimo Toschi ha offerto su cittanuova.it in un insieme di testi che ha raccolto ora in un volume che porta il titolo di un brano del profeta Isaia: “Sentinella quanto resta della notte?” È la domanda inquieta dell’uomo a Dio davanti all’iniquità e al non senso di ciò che accade nel mondo. Toschi è un intellettuale autentico che si è riconosciuto nella scuola di Giuseppe Dossetti (1913-1996), una delle figure più originali e dibattute del cattolicesimo italiano, grande giurista, padre costituente e poi monaco nella martoriata Terra Santa ma legatissimo all’eremo emiliano di Montesole, luogo di un eccidio nazista.

Massimo Toschi è stato per lungo tempo professore di liceo nella sua città, Lucca, oltre a ricoprire, per un periodo, la carica di assessore regionale alla pace, perdono e riconciliazione dei popoli e cooperazione internazionale. Una definizione che può apparire retorica e ridondante ma che Toschi ha saputo declinare concretamente attivando una forma di diplomazia popolare capace di tessere legami di pace in luoghi impossibili, come è avvenuto quando, assieme ad associazioni ebraiche e palestinesi, ha organizzato la cura dei bambini di Gaza dopo il bombardamento israeliano del 2009. Massimo è stato il primo a varcare il confine tra le due aree in conflitto e lo ha fatto a bordo della sua carrozzina per via di una grave poliomielite che lo ha colpito a 9 mesi. Massimo non ha mai camminato.

Massimo Toschi con Nelson Mandela

È riuscito a muoversi con tale limitazione per aiutare migliaia di vittime delle guerre in mezzo mondo seguendo la certezza incrollabile di doversi schierare sempre dalla parte delle vittime come scelta di pace. Ma questa sua opzione non è stata una prova del tutto personale di coraggio o incoscienza del pericolo. Niente affatto. Toschi, nel solco di Dossetti, intende dimostrare, con tali gesti, la necessità, per i cristiani e la Chiesa, di vincere la tentazione del potere rifiutando l’idolatria della guerra e le sue giustificazioni. La scelta radicale della pace, di chi si pone dalla parte delle vittime inermi, non è quindi una questione accessoria, riservata ad alcuni, ma il cuore stesso del vangelo che si manifesta in questo tornante apocalittico della storia. L’unica risposta credibile all’ateismo pratico e teorico che avanza.

Toschi parla, dunque, assieme a Dossetti di un passo incompiuto sulla pace da parte del Concilio Vaticano II nella direzione indicata da papa Giovanni. Un ambiguità che ha permesso il riproporsi della teologia della guerra giusta nel catechismo universale del 1993 con conseguenze politiche assai concrete. Lo dimostrano le tante giustificazioni della corsa agli armamenti che contrassegna il nostro tempo in cui papa Francesco appare sempre più come un profeta inascoltato.

AP Photo/Lefteris Pitarakis

È perciò oggi di estrema attualità l’esame di coscienza proposto da Giacomo Lercaro, cardinale di Bologna che nel 1968, in piena Guerra Fredda, condannò i bombardamenti statunitensi in Vietnam: «non sarò  io forse uno che vorrebbe in teoria la pace e perciò prega Cristo per la pace,ma che in pratica ,quasi per una assicurazione superstiziosa ,brucia ancora in segreto qualche granello di incenso all’idolo della ragion di stato  e del falso realismo politico  e perciò all’idolo della guerra?». Parole senza ambiguità, in linea con quelle pronunciate da Igino Giordani, a proposito dell’inutilità della guerra, come invito estremo a impedire uno svuotamento del vangelo che mina alle fondamenta la testimonianza cristiana e, quindi, la capacità di informare, a partire dalla vita, le scelte politiche dell’Italia.

Lo conferma oggi il fatto che il nostro Paese si avvia a ratificare a Madrid nel 2022 il nuovo concetto strategico di difesa, elaborato dalla Nato, senza un reale dibattito nella politica e nella società italiana costantemente distratta da altro, a prescindere dalla pandemia.

Un confronto reale, dal molo di Genova al Quirinale

Senza solide radici è difficile resistere alle suggestioni del nostro inevitabile coinvolgimento nei conflitti di un mondo in fiamme, dalle tensioni sul fronte orientale europeo a quelle che si scontrano sul Mar Mediterraneo. E bisogna saper rendere ragione affrontando le tesi dei tanti centri di pensiero che promuovo una decisa politica degli armamenti che si spinge fino a giustificarne la vendita ai Paesi che violano impunemente i diritti umani.

Un confronto da impostare a partire da casi concreti come quelli affrontati e promossi in questi anni su Città Nuova. Dalle proposte di conversione economica nate in Sardegna, a partire dall’opposizione alla vendita di bombe all’Arabia Saudita, al sostegno dei portuali di Genova che rifiutano di caricare armi sulle navi da guerra, fino all’appello condiviso da 44 associazioni cattoliche a sostegno dell’adesione dell’Italia al trattato che vieta le armi nucleari. Appello che può ridursi ad una sterile petizione di principio oppure costituire una bussola per leggere i segni dei tempi e agire di conseguenza.

Solo in tal modo possiamo verificare le premesse da dimostrare nella domanda del professor Rovelli e cioè: L’Italia è ancora una Repubblica che ripudia la guerra? Domanda che deve porsi anche a chi pretende di varcare, da presidente, il portone del Quirinale.

 

 

 

 

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