Lazzaro: nostalgia di Paradiso

Ambientato nella Betania del Vangelo, un atto unico di Kahlil Gibran interpreta la condizione d’esilio dell’uomo sulla terra e la sua nostalgia del cielo

 

Betania! Un nome che evoca immediatamente la patria di Marta e Maria e del loro fratello Lazzaro riportato in vita da Gesù. Vicinissima a Gerusalemme (si trova sul fianco orientale del Monte degli Ulivi), Betania fa attualmente parte della Cisgiordania, sotto il controllo dello Stato palestinese. Oggi la località è conosciuta col suo nome arabo al-Azariyeh, deformazione di Lazarium, come veniva chiamata fin dal IV secolo la piccola borgata sorta attorno alle due chiese che custodivano, rispettivamente, la casa e il sepolcro di Lazzaro. Di esse esistono ancora, inglobati in un moderno santuario, i resti bizantini e crociati, ed è nuovamente visibile l’antica tomba scavata nella roccia indicata come quella in cui l’amico di Gesù venne deposto.

Non va confusa, questa Betania, con l’altra al di là del fiume Giordano dove, secondo l’evangelista Giovanni, fu battezzato Cristo e dove pure, secondo la tradizione, il profeta Elia fu rapito in cielo. Dopo la conferma venuta dalle recenti scoperte archeologiche condotte dai francescani, questa seconda Betania che si trova nel Wadi Kharrar, a circa sette chilometri dal Mar Morto, in Giordania, è stata inserita nella lista dei patrimoni mondiali dell’Unesco.

Torniamo invece alla Betania di Lazzaro, di cui Giovanni, nel suo Vangelo, non riporta parola, né prima della morte né dopo il ritorno alla vita. Eppure dovrà aver detto qualcosa della sua esperienza da redivivo! Lo fa per lui, con l’immaginazione dell’artista, Kahlil Gibran, lo scrittore e poeta libanese cattolico di rito maronita, divenuto celebre per opere come Il profeta, Il folle e Gesù Figlio dell’uomo tradotte in molte lingue. Nel 1931 Gibran aveva quarantasei anni ed essendo ammalato di cirrosi epatica e di tubercolosi ad uno dei polmoni, sentiva ormai prossima la morte: fu allora che scrisse Lazzaro e la sua amata. Questo dramma in un solo atto, che possiamo considerare il suo canto del cigno, viene ora riproposto dalle Edizioni EDB.

Ben stagliati malgrado la brevità del testo, sei personaggi interagiscono sulla scena di un giardino nel tardo pomeriggio del lunedì seguente alla resurrezione di Cristo: Lazzaro, le sue sorelle Marta e Maria, la madre, il discepolo di Gesù Filippo e il Folle, che con i suoi puntuali commenti dall’esterno ricopre la funzione del coro greco: «Si guarda sempre attraverso qualcuno per vedere qualcun altro». Nella prima parte del dramma Lazzaro è assente, evocato solo nei discorsi delle sue parenti, che ne commentano il cambiamento dopo il ritorno alla vita: estraneo a coloro che lo amano, trascorre gran parte del tempo in solitudine sulle colline, la sua mente è altrove («i suoi occhi sono più profondi […]. È tenero, ma la sua tenerezza è per qualcuno che non è qui»).

Nella seconda parte, Lazzaro, rientrato a casa, rifiuta le lenticchie della madre e fa discorsi strani. Solo Maria riesce in qualche modo ad entrare in sintonia con lui, che può così confidarle l’esperienza vissuta nell’aldilà: l’incontro con “la mia amata”, ovvero l’amore divino («Eravamo nello spazio, la mia amata ed io, ed eravamo tutto spazio. Eravamo nella luce ed eravamo tutta luce») e il distacco da questa raggiunta beatitudine, che ora lo rende insoddisfatto, straniero rispetto alla realtà quotidiana nella quale si trova ora a vivere («Ho visto l’altro mondo che voi chiamate morte, e se fossi morto sarebbe stato per il desiderio. Ora, in questo momento me ne sto qui a ribellarmi contro quella che voi chiamate vita»). Ribellione al dolore delle sue donne, da lui definito egoismo, e che gli fa chiamare in causa perfino il Maestro, con toni che ricordano Giobbe: «Era giusto che proprio io venissi scelto, un’umile, modesta e mesta pietra che conduce al culmine della tua gloria? Chiunque tra i morti sarebbe stato utile a glorificarti […] Perché, perché, perché mi hai chiamato dal cuore vivente dell’eternità a questa morte da vivo? O Gesù di Nazareth: non riesco a maledirti! Vorrei benedirti».

Al culmine della disperazione, Lazzaro scoppia in pianto, chiede perdono al Maestro e lo benedice. Intanto sopraggiunge il discepolo Filippo: annuncia che Gesù è risorto e ora si trova in Galilea. Lazzaro, finalmente, comprende il sacrificio compiuto dal Maestro per la salvezza degli uomini («Se è risorto dai morti, lo crocifiggeranno di nuovo, ma non lo crocifiggeranno da solo. Ora io lo annuncerò e crocifiggeranno anche me») e in preda all’esaltazione s’allontana da casa.

Il Lazzaro di Gibran non è certo quello dei Vangeli canonici, ma ben rappresenta, in un linguaggio poetico che riecheggia i toni del Cantico dei cantici, la condizione di esilio sulla terra dell’uomo, anelante a quella perfetta felicità e a quella libertà totale che ci attendono nell’altra vita.

Scrive Bianca Garavelli nell’introduzione: «Con quest’opera emozionante Gibran conferma la sua sensibilità di artista e la sua capacità di interpretare lo spirito evangelico, conciliandolo con la realtà di tutti i giorni. Per lui la ricerca di un’armonia perfetta fra tempo ed eternità è naturale, dato che per tutta la vita conciliò la cultura dell’Oriente, da cui proveniva, con quella dell’Occidente, in cui visse e che amò in egual misura».

Quale suggestione in questo atto unico qualora venisse rappresentato tra le pietre e gli ulivi di Betania/al-Azariyeh!

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