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L’Azzardo di Stato e la cessione di sovranità

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

Intervista a Maurizio Fiasco. L’azzardo di massa è il prodotto finale di un complesso industriale-finanziario che ha scientificamente ingegnerizzato la dipendenza per trasformarla in profitto. Un fenomeno che colpisce i giovani, attratti in particolare dalle scommesse online.

Il presidente Sergio Mattarella consegna l’onorificenza O.M.R.I., conferita “motu proprio”, al prof. Maurizio Fiasco, Roma, 17 Novembre 2015. Credit: ANSA/ US/ QURINALE/ Francesco Ammendola.

L’espansione dell’azzardo in Italia è il risultato di un disegno industriale che ha occupato e forzato, passo dopo passo, lo spazio che la politica gli ha, del resto, aperto. Per le dimensioni che ha raggiunto non è più un business di nicchia. Dal momento che tra il 2006 e il 2025 (proiezioni) ha contabilizzato un flusso balzato da 23 a circa 170 miliardi, e un margine lievitato da 7,5 a 22 miliardi, del resto, non può più essere trattato come un mero fenomeno di costume. Con questi numeri, e il complesso delle condizioni che li rendono possibili, è una questione che tocca il cuore della democrazia costituzionale. Le piattaforme digitali, le loro tecnologie “forti”, la finanziarizzazione dello sport, il marketing predatorio verso i giovani: tutto concorre a formare un sistema integrato in cui l’interesse privato prevale sui principi della Repubblica.

Ne abbiamo parlato con Maurizio Fiasco, sociologo ed economista, che da trent’anni studia il modo in cui l’industria dell’azzardo ha costruito i propri vantaggi competitivi sottraendo valore al capitale sociale del Paese.

Professor Fiasco, lei sostiene che la questione dell’azzardo è anzitutto un fatto costituzionale. Che cosa è stato incrinato?

La nostra Carta stabilisce un ordine gerarchico di valori pubblici molto netto. Al centro vi è la persona, con la sua dignità e la sua salute (art. 32). L’industria dell’azzardo – non per accidente, ma per un programma scientemente perseguito – produce patologie, vulnerabilità, fratture economiche e familiari. In un simile scenario, lo Stato dovrebbe esercitare il potere-dovere, ribadito dalla Corte costituzionale sin dal 1975 (sentenza n. 237, scritta da Francesco Paolo Bonifacio) di limitare e contenere un’attività che compromette sicurezza, dignità e utilità sociale.

Quando, invece, viene deciso di inseguire il risultato in termini di entrate erariali, si presenta una scorciatoia cognitiva, effettivamente seguita da Governo e Parlamento. Si è arrivati persino a codificare che la tutela della salute debba essere “compatibile” con l’invarianza del gettito: è scritto chiaramente nella narrativa del decreto legislativo 25 marzo 2014, n. 41 di “riordino” della raccolta online di scommesse e altri azzardi su canale digitale. In modo strisciante si è verificato un capovolgimento della gerarchia dei valori costituzionali.

Qui non si può invocare una libertà di iniziativa imprenditoriale. Piuttosto si tratta della capacità dello Stato di mantenere ferma la primazia dei diritti fondamentali scritti nella Costituzione. Si trascura troppo spesso, infatti, che nel 1948 si sancì il disegno delle tre dimensioni della cittadinanza: dopo quella civile e quella politica, per la prima volta in Italia anche la cittadinanza sociale venne posta a fondamento della Repubblica. Il diritto inalienabile del cittadino alla salute è formulato in modo netto e inequivoco: violarne l’effettività equivale alla “messa in mora del diritto sociale”.

Nel suo lessico ricorre l’espressione “cessione di sovranità”. Che cosa significa, concretamente?

Significa che un potere industriale, normativamente autorizzato, riesce di fatto a incidere sulle scelte del legislatore più di quanto vi riescano i cittadini che quel legislatore lo hanno eletto. E questa dinamica non riguarda soltanto l’azzardo: l’abbiamo già vista nel tabacco, negli alcolici ad alta gradazione, nel junk food. Ovunque l’industria impieghi tecnologie capaci di manipolare bisogni, emozioni e abitudini, osserviamo la stessa difficoltà della politica nel contenere i danni e nell’applicare i principi costituzionali. Si forma un triangolo di cooperazione: governo, industria e attori economici territoriali si riconoscono reciprocamente vantaggi di breve periodo.

Nel frattempo, la democrazia restringe il suo campo di effettività. Lo spazio critico si restringe. La capacità dei corpi intermedi di intervenire è neutralizzata. È il paradigma che Sheldon Wolin definisce Inverted Totalitarianism: non violenza del potere, ma normalizzazione del danno, invisibilità della sua origine.

Lei parla spesso di “tecnologie forti”. In che modo l’azzardo le utilizza per generare dipendenza?

Sono tecnologie che rovesciano il rapporto tra soggetto e oggetto. In teoria siamo noi a usare la piattaforma; in pratica è la piattaforma che usa noi. Gli algoritmi digitali pedinano l’utente, ricostruiscono cluster informativi dettagliati, anticipano comportamenti e reazioni. Entrano – direbbe Daniela Lucangeli – nella memoria profonda delle nostre strutture emotive.

Il “bonus di benvenuto” è l’esempio più intuitivo. Non regala nulla: prepara una sequenza calibrata di vincite e perdite, produce uno stato di eccitazione controllata, conduce il giocatore – soprattutto il giovane giocatore – a credere di poter recuperare le somme che sta perdendo. A quel punto il denaro non è più un mezzo: diventa il significato stesso dell’azione. È l’architettura tipica che è stata chiamata del “capitalismo limbico” (David Courtwright, 2019) dove il prodotto non risponde a un bisogno, ma produce il bisogno a cui poi pretende di rispondere.

Il punto di accesso privilegiato per i giovani sono le scommesse sportive. Che cosa è cambiato nella rappresentazione dello sport?

La trasformazione è stata radicale. Lo sport dovrebbe essere costitutivamente un racconto, una trama, un’epica collettiva. L’industria lo ha disassemblato in una sequenza di micro-eventi su cui puntare. Il “doppio schermo” – si segue la partita in TV e si tiene lo smartphone in mano a ricevere quotazioni di scommesse, notificate a raffica – spinge a una stimolazione continua: chi farà il prossimo fallo laterale, chi batterà il prossimo calcio d’angolo. Il gioco non è più ciò che accade sul campo, ma nel palinsesto delle scommesse. Il risultato è duplice. Da un lato, cresce la probabilità di sviluppare dipendenza perché aumenta la frequenza degli stimoli. Dall’altro, lo sport perde la sua funzione civile. Da esperienza di formazione, per coltivare i tratti positivi di una identità, e da narrazione anche intergenerazionale si trasforma in un contenitore di eventi aleatori.

Come si innesta in questo quadro il mondo dei videogiochi?

È la porta di ingresso, la palestra dei riflessi condizionati. Le loot boxes, ad esempio, monetizzano la progressione, alternano abilità e fortuna, inducono a spendere somme (inizialmente modeste, ma via via con frequenza crescente per “andare avanti”. La dinamica della ricompensa casuale è la stessa dell’azzardo. Cambia soltanto il fine: nel gaming il denaro serve per giocare, nell’azzardo (gambling) si gioca per ottenere denaro. Ma la struttura è identica. E questo genera una continuità culturale e cognitiva potentissima.

Lei sostiene che il vero obiettivo delle scommesse non sono i ricavi diretti ai club, ma la loro finanziarizzazione. Come funziona questo meccanismo?

Il calciatore è diventato un asset finanziario. Ogni sua prestazione incide sulla capitalizzazione del club. I flussi delle scommesse funzionano da rating informale: più sono intensi, più segnalano agli investitori che quel club “vale”. L’effetto reputazionale è immediato e, per i mercati, assai più importante delle entrate generate dalle partnership commerciali. Le società sportive ottengono in cambio un incremento di valore percepito. Lo sport, così, diventa un sottostante: la materia prima su cui costruire derivati economici, narrazioni mediatiche e aspettative speculative.

Lei ha stimato che l’azzardo assorbe oltre 100 milioni di giornate lavorative all’anno. Qual è il significato di questa cifra?

Significa che un’enorme quantità di tempo sociale – un terzo di quello che le famiglie italiane dedicano alle vacanze – viene sottratto alla vita comunitaria, all’apprendimento, alle relazioni. È una perdita di capitale sociale che non si rigenera. Perché il tempo è una risorsa non riproducibile. Quando lo si investe in azioni che producono danno, il danno diventa permanente.

Perché, nonostante questa evidenza, le istituzioni reagiscono così debolmente?

Perché lo Stato è entrato in un loop – ovvero un circuito cognitivo che si autoalimenta – di dipendenza fiscale: l’addiction fiscale, così ho proposto di definirla con un neo-lemma che possa far comprendere per analogia con la dipendenza patologica. Quando una voce di bilancio appare come una scorciatoia per coprire spese crescenti e entrate insufficienti, si crea un assoggettamento cognitivo.

È un fenomeno ben descritto da studiosi come Stigler e O’ Connor: lo Stato rinuncia all’azione sistemica e rincorre il gettito. Il paradosso è che il gettito reale dell’online è modestissimo rispetto alla massa dei flussi. Su 70 miliardi di raccolta, soltanto 700 milioni finiscono alle casse pubbliche; i concessionari ne incassano tre volte tanto. È un sistema dove il rischio resta in capo alle famiglie, e il vantaggio è privatizzato.

Che cosa fare, dunque? Dove ricominciare?

Dobbiamo restituire alla questione il suo significato politico: è una sfida per la democrazia. Le reazioni alle critiche mosse all’azzardo evocano il ritorno di un moralismo d’epoca, o agitano lo spettro del proibizionismo. Rispondiamo andando a smontare il “prisma” del progetto industriale, con un apparato epistemologico che attinga alle neuroscienze e agli assiomi della Scuola di Palo Alto.

Sulla condizione dei giovani, invece, dobbiamo aprire un fronte culturale: interpretando con cura la loro crescente sedentarietà, i fenomeni di isolamento, la dispersione scolastica, insomma la perdita di speranza nel futuro. L’azzardo si innesta esattamente in questo vuoto. Il mio invito è a ricostruire una critica documentata, non episodica; una pressione civile che impedisca la normalizzazione del danno. E, a fianco di questo, promuovere ciò che Daniela Lucangeli chiama la pedagogia della gioia: la capacità di riattivare desiderio, progettualità, appartenenza. La gioia è un attivatore di futuro. L’azzardo, invece, è un compressore del futuro: accorcia l’orizzonte, impoverisce la speranza, destruttura il tempo mentale.

La democrazia, per reggersi, ha bisogno di cittadini capaci di futuro. È questo il bene da preservare. Il resto sono dettagli tecnici.

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