Lavoro senza rappresentanza?

Domande aperte sul sindacato davanti al potere della finanza globalizzata
La protesta dei lavoratori di Almaviva, Napoli, 26 novembre 2016. I dipendenti, a rischio licenziamento per la decisione dell'azienda di chiudere le sedi di Napoli e Roma, per un totale di 2.511 persone, di cui 845 nel capoluogo partenopeo, hanno occupato la sede dell'azienda.

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Si fa fatica a crederlo. La televisione pubblica italiana trasmette programmi come Boss in incognito, che mostra un facoltoso imprenditore del Meridione mentre scende da un jet privato per mettersi alla guida della Ferrari ed entrare nella sua azienda dove si trasveste da operaio. Dopo un certo periodo di tempo arriva la sorpresa: dismessa la tuta blu, eccolo, in giacca e cravatta, assiso alla scrivania mentre chiama a turno i “colleghi di qualche giorno” per giudicarli. Sembra davvero un padreterno davanti a persone fragili e indifese come animali caduti nella trappola. Rassegnati per la condanna o increduli davanti alla bontà del padrone.  Cosa ci sarà di così spettacolare in questa candid camera grottesca dove chi è sottomesso non osa neanche negare il consenso per la messa in onda delle sue emozioni? È così interessante lo sguardo disperato di un padre o di una madre di famiglia che intravede la possibilità di perdere il lavoro in una terra dove dilaga una disoccupazione da record? Il video andrebbe trasmesso e discusso nelle scuole per comprendere l’esito estremo della «globalizzazione dell’indifferenza», come la chiama papa Francesco. Nel caso concreto non sappiamo se l’impresa sia formalmente senza sindacato.

Di sicuro è rimosso il legame solidale originario che quella parola esprime, il sentirsi cioè fratelli, termine poi sostituito da quello non meno impegnativo di compagni, coloro che condividono il pane, cum panis: insieme per la giustizia.

Da molte parti, pur esistendo milioni di iscritti e un gran numero di sigle, si parla di una lunga “notte del sindacato” a partire dalla mancanza di analisi e comprensione dell’attuale momento storico. Economisti come Leonardo Becchetti, nel dossier di Città Nuova su povertà e diseguaglianze, non hanno difficoltà a citare la ricomparsa del fenomeno dell’“esercito industriale di riserva” usato dall’analisi marxista per indicare quella fascia della popolazione potenzialmente disoccupata e quindi propensa ad accettare salari e trattamenti sempre più ridotti e precari per la concorrenza esistente a livello globale. I dati sono in caduta libera come ha documentato l’ultimo rapporto del Censis sulla riduzione, in Italia, del 26,5% dei redditi familiari dei giovani con meno di 35 anni rispetto ai loro coetanei di 25 anni fa, mentre coloro che hanno denaro (i rentier) lo accumulano: dal 2007 l’incremento è stato di 114 miliardi di euro, arrivando a una cifra complessiva di 818 miliardi.

Una diseguaglianza così strutturale è confermata su scala mondiale dai dati Forbes secondo cui il 10% della popolazione più ricca detiene l’86% della ricchezza mondiale. Ovviamente questa redistribuzione non avviene

per caso, ma secondo regole dettate in larga parte da società multinazionali che rappresentano 68 tra le prime 100 economie mondiali (il resto sono gli Stati nazionali) e controllano l’85% del commercio internazionale. È su questo tavolo che si decide la competizione tra l’operaio o ingegnere cinese con quello polacco, italiano o statunitense. A guidare la classifica delle prime 10 società multinazionali troviamo il colosso statunitense della distribuzione Wal-Mart. Un vero e proprio “Stato nello Stato” che, ad esempio, neanche ha preso in considerazione la richiesta di risarcimento per il crollo, nel 2013, del Rana Plaza in Bangladesh, dove oltre 1100 operaie sono rimaste uccise in una fabbrica che produceva, in condizioni di insicurezza e per paghe infime, abbigliamento per i marchi occidentali.

In questa top ten delle multinazionali, ormai la Cina raggiunge gli Usa con tre società a testa, ma ciò che importa è il controllo di tali grandi entità. Tra i primi 100 gruppi multinazionali, 52 sono posseduti da istituzioni finanziarie private, 18 da famiglie private, 12 da Stati (anche tramite i fondi sovrani) e il resto in maniera varia tra questi soggetti. Non è difficile immaginare il loro potere di persuasione in sede internazionale e verso i governi nazionali sulle leggi del lavoro, l’ambiente e i beni comuni.

Anche la singola azienda, dalla piccola alla medio-grande, ha un peso molto relativo perché è determinata da queste regole del gioco ed è eroico chi, in tale competizione falsata, cerca di fare impresa per il bene comune.

Ma se non è concepibile un governo democratico dell’economia planetaria, bisogna riconoscere che diviene difficile obiettare la lucida analisi di papa Francesco, che parla di «un terrorismo di base che deriva dal controllo globale del denaro sulla terra e minaccia l’intera umanità» (discorso ai movimenti popolari del 5 novembre 2016). Davanti a tale scenario si può generare una risposta decisa e non violenta? È questa la prospettiva, ad esempio, che si è data l’associazione di riflessione sindacale Made in the world, che chiede un disarmo unilaterale prima di tutto tra coloro che fanno con coscienza attività sindacale ma, spesso, si dividono e non riescono ad alzare lo sguardo perché pressati da uomini e donne che «hanno fame ora, non hanno casa e lavoro, e non possono attendere un futuro migliore». Il sindacato non è un’agenzia di servizi o chi rappresenta, con spirito corporativo, un gruppo contro l’altro e si lascia rinchiudere tra i confini di un solo Paese. È un’altra cosa. Deve trovare un nuovo modo o forse antico per rinascere. Lo si vede, ad esempio, in Iraq dove, in un contesto segnato dalla guerra, la società civile si riorganizza con metodi pacifici dando spazio a forme di organizzazioni di lavoratori che riescono a costruire legami di solidarietà con sindacati statunitensi ed europei, come testimonia l’attività dell’associazione “Un ponte per…”. Un “noi” insopprimibile che cerca spazio e voce.

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