Lavoro e figli. La solitudine delle donne

Nel Paese avvolto dal gelo demografico la normativa vigente costituisce, nei fatti,un serio ostacolo per le madri che vogliono continuare a lavorare. Poche le misure adottate in forma di bonus, mentre servono misure strutturali
ANSA

È una delle grandi emergenze del Paese. In cima a ogni preoccupazione demografica. Avanti di questo passo e nel 2065 saremo 8 milioni in meno che, tradotto in soldoni, vuol dire scuole chiuse e ospizi triplicati. Le donne mandano segnali precisi chiedendosi perché mai mettere al mondo figli se poi, rose dai sensi di colpa, si rischia di frantumare equilibri precari di lavoro e di ménage coniugale senza potersi sentire davvero mamme.

Alla fine a pagarne il prezzo davvero più alto sono sempre loro, le mamme.

Non il marito o il compagno, non la famiglia di origine, non di certo la comunità sociale a cui si appartiene. Oggi tutti partono dal presupposto che in fondo sia un affare di famiglia. Una cosa privata come sposarsi o metter su casa. E a un anno e mezzo dall’inizio del congedo di maternità, in media le dipendenti guadagnano il 30 % in meno del reddito percepito prima della gravidanza e alla fine, una su cinque decide di restare a casa e di dedicarsi totalmente ai figli.

La normativa di protezione della maternità risale –pensate-al 1902 e arriva alla legge delega del 2014, la 183 passando per alcune tappe fondamentali, la prima delle quali è la famosa norma 53 del 2000 che ha prodotto, l’anno , il testo unico maternità-paternità (d.lgs. n.151).

Per il lavoro subordinato, tutto sommato qualcosa, regge. Anche se poi ci si licenzia perché l’utilizzo dei congedi abbassa e non poco la retribuzione e poi perché i costi di un nido o di una baby setter impattano pesantemente sull’economia familiare.

Con riferimento al lavoro autonomo e alle libere professioni, la protezione economica è praticamente nulla.

Quel che è certo è che dopo il secondo figlio, le dimissioni e i mancati rientri al lavoro sono all’ordine del giorno. Spesso mancano i servizi a fronte di nonni sempre più indisponibili o lontani o di nidi d’infanzia inaccessibili per graduatoria, orari, costi e “scoperture” durante le malattie dei bambini.

I nonni che, fino a 15 anni anni fa, erano importanti ammortizzatori sociali sia pure informali, oggi sono ancora occupati e tendono a rimanere al lavoro sia per l’obbligo dei regimi pensionistici, sia per il bisogno di portare a casa uno stipendio aggiuntivo.

Poco conosciuti i diritti legati alla maternità e alla paternità e i servizi disponibili. La normativa è troppo articolata, complicata, troppo poco lineare. La scarsa informazione e il mancato approntamento di servizi dedicati produce un effetto di sinergia negativa perché sono così rari gli uomini che si prendono il classico congedo, che la notizia non si trasmette neanche con il passaparola nei luoghi di lavoro. E anche la disciplina legislativa produce istruzioni complete e confuse anche da parte dell’Inps, applicazioni insoddisfacenti, richieste di chiarimento e di impugnazione in giudizio spesso incomprese.

Insomma le leggi ci sono in teoria e a sufficienza. Nnei fatti sono del tutto deludenti.

Passiamo a vedere le misure attuali. Oggi si parla tanto dei bonus bebè che in pratica sono 80 euro al mese fino al compimento dei tre anni. Si tratta di un premio alla natalità che si può chiedere a partire dal 4 maggio 2017 e si estende a tutte le donne che abbiano partorito, senza limiti di reddito e indipendentemente dal fatto che lavorino oppure no.

Esiste poi il bonus mamma, mille euro una tantum che finora ha subito gravi ritardi per pastoie burocratiche.

Tornando al primo anno dopo la nascita del bambino, la misura che più di tutte è pensata per le donne che lavorano è il voucher baby setter. Istituito nel 2013, è stato prorogato con una dotazione di 20 milioni l’anno da ogni legge di Bilancio. Nell’ultimo documento di finanza pubblica, la misura è stata prorogata per due anni, 2017 e 2018, per le lavoratrici subordinate e quelle iscritte alla Gestione Separata Inps aprendosi alle autonome e le imprenditrici. Si è passati così da 20 a 50 milioni di euro l’anno.

L’incentivo, riservato alle donne che rinunciano al congedo parentale (i sei mesi pagati al 30% dello stipendio) è di 600 euro al mese per sei mesi. Questi soldi vanno spesi per il nido e la baby sitter.Come stanno rispondendo le italiane? Nei primi due mesi del 2017 – come riporta l’Inps-sono stati impegnati una decina di milioni.

Ma il vero problema è che tutto questo non basta. La maternità appare sempre più un’isola separata dalla terraferma e oggi per giunta pare quasi l’isola che non c’è. Il rientro al lavoro, la compatibilità degli orari, il riaggiornamento professionale, la fruibilità di riposi, permessi e congesti sono le tematiche ricorrenti. Tutto sta cambiando nel lavoro, nella società e nella famiglia, con la conseguenza che si accentua la solitudine, l’angoscia, la frustrazione, il sentimento id inadeguatezza delle donne e non solo quando sono precarie o discriminate.

 

 

 

 

 

 

 

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