Lavoro e Covid 19, cosa ci dice il caso Mondragone

I disordini scoppiati in Campania per il focolaio del virus negli alloggi dei braccianti bulgari, ci deve far aprire gli occhi su condizioni inaccettabili di sfruttamento, note da tempo, che non possono più essere tollerate.
Lavoro agricolo Cecilia Fabiano/ LaPresse

Il contagio da Covid 19 che colpisce alcuni abitanti delle palazzine ex Cirio a Mondragone (in provincia di Caserta) rappresenta l’esempio più eclatante di quella parte della realtà che non si vuole vedere fino a quando non scoppia il problema e allora si chiama l’esercito.

Fin dall’inizio della emergenza coronavirus, le associazioni umanitarie e i sindacati hanno segnalato l’urgenza di risolvere il problema della precarietà estrema degli alloggi dove sono costretti a vivere i braccianti agricoli. Veri e propri ghetti dove è impossibile seguire le regole igieniche e del distanziamento fisico necessario per evitare il propagarsi del contagio. Così come è stato ed è evidente il pericolo di esposizione di quei lavoratori, come i fattorini e operatori della logistica, che non si sono mai fermati anche durante il lockdown più stretto.

Ora, a fine giugno, arriva la notizia di nuovi focolai del virus emersi nel deposito di una azienda di spedizioni a Bologna e nella concentrazione abitativa dei braccianti di Mondragone che arrivano ogni anno dalla Bulgaria per lavorare con grande rischio di sfruttamento, noto a tutti, in Campania e nel basso Lazio. Terra da sempre ricca di una produzione agricola che richiede un lavoro intensivo assicurato anche da questi 1.500 lavoratori comunitari (sono europei in prevalenza di etnia rom) che arrivano a Mondragone ogni anno da maggio a ottobre.

La grande industria conserviera della Cirio aveva predisposto degli alloggi per i propri dipendenti, ma le vicende della dismissione della proprietà pubblica ha coinvolto anche queste palazzine ora in mano a privati che affittano le case a 100 euro mensili a persona, fino a 15 persone per appartamento.

La descrizione puntuale della situazione si può leggere nel libro “Spezzare le catene” di Città Nuova nella parte raccontata dall’inviato di Avvenire, Toni Mira, grande conoscitore dell’emergenza sociale in Italia.

Grazie alla denuncia di questo giornalista si è arrivati, tra l’altro, a colpire il giro di sfruttamento della prostituzione minorile organizzata da malavitosi italiani a danno di alcuni bambini bulgari. Figli di quei genitori che ogni giorno, mettendosi in fila alle 5 della mattina, vendono le loro braccia per 25 euro (i minorenni ne prendono 10) ai datori di lavoro che li caricano sui loro furgoni.

Insomma si può dire che l’esercito doveva arrivare molto prima degli attuali disordini e vigilare sul fatto che i braccianti, senza contratti regolari, scappano dal blocco imposto dalla zona rossa perché non hanno reddito per mangiare, se non grazie all’intervento dei volontari e della protezione civile. E parliamo di zone che non sono affatto depresse ma ricche dei proventi della terra e degli allevamenti di bestiame (frutti di eccellenza come il pomodoro o le mozzarelle).

Prima di indignarsi per le reazioni scomposte e disperate di tale umanità costretta in condizioni di ingiustizia strutturale, bisogna andare alle radici di un sistema che pianifica e tollera lo sfruttamento in una zona che da sempre assicura la produzione di ortaggi per i nostri mercati e l’industria della trasformazione alimentare.

C’è bisogno di un intervento radicale di bonifica sociale e di legalità effettiva. Così come è urgente risolvere il bubbone dei ghetti in Puglia per evitare che si riproducano eventi assurdi, come quelli a San Severo di Foggia, documentati, sempre da Toni Mira, su Avvenire dove alcuni residenti vicini al sindacalismo di base hanno impedito l’accesso ai volontari Caritas, che offrono il loro servizio nella regolarizzazione dell’immigrazione prevista dai recenti decreti, e al personale di Intersos che presta l’attività sanitaria di prevenzione del virus.

Proprio l’emergenza della pandemia rappresenta l’occasione per risanare condizioni inaccettabili di residenza, oltre che di lavoro, ma anche di tener conto della situazione che conduce, come sembra verosimile sia accaduto nelle aziende della logistica di Bologna, a non esigere il rispetto delle regole di sicurezza per timore di perdere l’occupazione legata a forme contrattuali precarie.

Siamo ancora all’inizio di una lunga estate che si preannuncia caldissima e che richiede una straordinaria vigilanza per impedire di ritrovarci, di nuovo a settembre, come temono alcuni esperti, nella necessità di reintrodurre un rigido lockdown generalizzato.

Misura che sarà molto difficile far rispettare, mentre si hanno, invece, tutti gli strumenti per ripartire dal rispetto della dignità di ogni persona. Vero antidoto contro ogni virus, compreso quello dell’indifferenza che poi diventa facilmente intolleranza di una coscienza funzionante a fasi alterne.

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