L’attualità di Charlie Chaplin

Attore e regista, Chaplin ha lasciato un patrimonio artistico tuttora fondamentale per il cinema, ma anche per tutti noi.

Charlie Chaplin nacque a Londra, il 16 aprile del 1889, e oggi, quindi, sarebbe l’anniversario del suo compleanno. Un modo carino per ricordare questo grande genio, fondamentale padre del cinema, potrebbe essere quello di partire da una serie di parole adatte a riassumerlo. La prima può essere “tenerezza”: quella che Chaplin sprigiona quando si muove malinconico per le vie urbane e le storture della società moderna, tra l’indifferenza, l’arroganza delle autorità e dei ricchi, tra i poveri dal cuore vivo come lui. Di tenerezza è pieno il suo primo lungometraggio: Il monello, capolavoro del 1921, in bianco e nero e muto, ma parlante fino a emozionare, a partire dalla sequenza in cui Charlot – fedele maschera dell’attore – tiene con sé un neonato tra le braccia. L’ha trovato per caso, lui che è un disgraziato e fa fatica a badare a se stesso. Stava per disfarsene, ma letto il biglietto della madre che l’ha abbandonato – «per favore, amate e prendetevi cura di questo piccolo orfano» – capisce che non riuscirà mai a sbarazzarsi del lattante in fasce. Seduto sul marciapiede intuisce che gli farà da padre fino ad amarlo profondamente, fino a rinnovare e far esplodere del tutto la tenerezza nel finale, quando, dopo averlo perso e ritrovato, lo abbraccia commosso come se fosse davvero figlio suo.

Un’altra parola  per ricordare Charlie Chaplin è “risate”: quelle che saltano fuori ovunque, anche negli abbondanti momenti sentimentali, persino drammatici, dei suoi film; quelle che sbucano dalla malinconia di cui è cosparsa la sua comicità, dalla solitudine e dalla ricerca di amore e di felicità del povero squattrinato. La sequenza dell’incontro di pugilato in Luci della città, del 1931, anche questo splendido e muto, stavolta volontariamente – perché il sonoro c’era già ma a Chaplin non serviva – è tutta da ridere: Charlot si nasconde dietro all’arbitro impedendo all’avversario di colpirlo, e d’improvviso, quando questo non sa più che fare, eccolo saltare fuori e colpirlo. Ridi, perché così i sentimenti del protagonista sono più credibili, più efficaci, anche per gli scivoloni e i colpi subiti che spogliano di ridondanza emozionale la sequenza: sono strumenti per spiazzare, per togliere ampollosità alla scena, e così coinvolgere di più lo spettatore.

Charlie Chaplin e sua moglie Oona O'Neill
Charlie Chaplin e sua moglie Oona O’Neill, foto Ap

Del resto era un maestro anche nell’uso del linguaggio, Charlie Chaplin, un perfezionista maniacale della regia, attento a ogni dettaglio. Era costruttore di un cinema visivamente ad altezza dello sguardo umano, con inquadrature curate ma mai troppo vistose, mai troppo autoriali, quasi sempre con la figura completa in campo. La parola “corpo”, allora, quel corpo chapliniano che si muove delicato e pimpante, leggero e armonioso, fanciullo tenero sopra ciò che osserva, nonostante ne sia schiacciato, è un’altra parola che sta bene addosso a Chaplin. Tutto funziona, nei suoi film, corti o lunghi che siano, oggi come cento e passa anni fa, perché quella maschera memorabile con bombetta, baffetti, bastone, pantaloni larghi e scarponi arrivati, sfondati, si muove in modo unico, inconfondibile, eccezionale, in un paesaggio volutamente indefinito, riconoscibile per chiunque.

Passeggia sopra il suo tempo, Charlie Chaplin: moderno e divorante come sintetizza perfettamente una delle sequenze più popolari del suo cinema, quella di Tempi moderni, del 1936, in cui finisce nell’ingranaggio della fabbrica. È simbolo, quell’ingranaggio, di un tempo che è l’acquario in cui si muove Charlot, capace però di allargare la sua riflessione alla condizione umana in generale di ogni tempo, coi suoi mali onnipresenti. C’è un’altra parola, allora, che potrebbe essere “umanità” e che si respira come speranza nel suo cinema; fa rima con libertà e affetti, col desiderio di una vita collettiva armoniosa, pacifica. Lo dice, Chaplin, nel finale del suo primo film completamente sonoro: Il grande dittatore, del 1940, con il lungo e celebre monologo che in parte recita così: «Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti: la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato. L’avidità ha avvelenato i nostri cuori, ha precipitato il mondo nell’odio, ci ha condotti a passo d’oca fra le cose più abbiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell’abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l’abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchinari, ci serve umanità, più che abilità, ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è violenza, e tutto è perduto». Parole che non hanno perso attualità, così come il cinema di Charlie Chaplin, leggero, godibile, ma anche pieno di contenuti. Eternamente da riscoprire.

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